La Danza dei Dazi e dei Divi

La Danza dei Dazi e dei Divi Ovvero: come la politica mondiale è diventata uno show da prima serata (con audience sempre più confusa) Benvenuti, signore e signori, alla Commedia della Politica Globale! Uno spettacolo tragicomico in replica perpetua, con colpi di scena improbabili, alleanze traballanti e protagonisti convinti di essere… divinità in terra. Sul palco principale, direttamente da Mar-a-Lago, ecco a voi Donald “il Prestigiatore” Trump: l’uomo che, con uno schiocco di dita (e un tweet), trasforma trattati internazionali in coriandoli e alleanze storiche in siparietti da talk show. Il suo numero preferito? Il “Dazio Boom”, un trucco che consiste nel far pagare tutti tranne lui… e incassare comunque gli applausi. Nel ruolo della co-protagonista confusa, ritroviamo l’Europa, vestita da funambola malferma che barcolla tra promesse di sovranismo, stretti bustini democratici e goffi tentativi di imitazione americana. Il suo numero? La “Capriola del Contratto Sociale”: togliere fondi a scuola e sanità per investirli in droni e carri armati. Applausi scroscianti dal backstage della NATO. Ma non finisce qui! In platea – che poi è anche dietro le quinte, e spesso sul palco senza preavviso – siedono leader assortiti, consiglieri esperti in apparizioni mistiche, e una serie di tecnocrati-ballerini che danzano tra dossier e veline come se fosse una puntata di “Ballando con le Sanzioni”. A sorpresa, in una scena degna di Shakespeare in salsa reality, l’Italia sfoggia la sua tragedia personale: il Governo e l’Opposizione che, a forza di parlarsi addosso, finiscono per parlarsi contro. Ma tranquilli, c’è sempre un Comitato d’Emergenza del Nulla pronto a rilasciare comunicati che sanno di PowerPoint dimenticato in sala riunioni. E mentre i professori universitari, trasformati in monaci silenziosi, si aggirano nei corridoi delle accademie evitando il sapere come se fosse un virus respiratorio, la “Realpolitik” diventa uno spettacolo d’ombre cinesi. Un mondo dove le idee costano troppo, e i meme vanno a ruba. Il gran finale? Un vertice internazionale dove tutti parlano insieme, ma in lingue diverse, e nessuno ascolta. Trump promette di “salvare l’Occidente”, l’Europa risponde con una strategia chiamata “vedremo”, e i cittadini – noi, il pubblico pagante – applaudiamo, perché non sappiamo più se stiamo assistendo a una tragedia o a un talent show. Ecco a voi, dunque, la nuova stagione della politica mondiale: più Netflix che Parlamento, più influencer che statisti, più like che leggi. Sipario? Macché. Si riprende tra cinque minuti, dopo l’ennesimo scandalo. 0 views politica e satira La Danza dei Dazi e dei Divi lucianodigregorioart@gmail.com – 11 Aprile 2025 1 view politica e satira La Bestia Nera di Trump lucianodigregorioart@gmail.com – 11 Aprile 2025 0 views Politica Italiana L’economia dei dazi: il nuovo volto delcapitalismo in crisi lucianodigregorioart@gmail.com – 11 Aprile 2025 0 views politica e satira “Comprare è un dovere patriottico (soprattutto se sai prima cosa succede dopo)” lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 0 views POLITICA , politica e satira , Uncategorized Trump Imparerà Ad Amare il Digital Yuan lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 0 views POLITICA , politica e satira Il grande ritorno del muro… doganale! lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 0 views politica e satira Trump: “Che giornata!” Ma tranquilli, ne stanno arrivando altre. E sono sempre più grandi. Come i dazi. lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 1 view politica e satira Rivoluzione a Bruxelles: il burro d’arachidi non passerà! lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 1 view politica e satira Dazi, dogane e dignità perdute: anatomia di un mondo che si fa la guerra con le bollette doganali lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 3 views CALCIO L’Inter gioca a calcio. Il Bayern gioca a nascondino. lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 0 views politica e satira LA LOGICA DEL BUFFONE CON IL BAZOOKA lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 1 view politica e satira Occidente S.p.A. – Nuovi regimi, vecchie glorie e l’arte di vendere la libertà a rate lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 2 views politica e satira Un Racconto alla Camilleri Sui Dazi Nostri “Una telefonata allunga la vita (e forse pure il prosciutto)” lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 1 view POLITICA , politica e satira Superdazzi, superdisastri e supercazzole: il mondo secondo chi comanda lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 1 view POLITICA , politica e satira , Politica Italiana Lo scudo, il dazio e la supercazzola strategica lucianodigregorioart@gmail.com – 8 Aprile 2025 1 view POLITICA , politica e satira Trump lancia bombe, Meloni prende tempo, Salvini mette like lucianodigregorioart@gmail.com – 8 Aprile 2025 2 views politica e satira , Politica Italiana Salvini vuole il Viminale. 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La Bestia Nera di Trump

“Dazi, capitalisti e altre favole della buona notte” di Luciano Di Gregorio – La Satira di Stato C’era una volta il libero mercato. Correva felice per le praterie globalizzate, abbracciava tutti con catene di montaggio transcontinentali, mentre raccontava ai bambini del terzo mondo che un giorno, forse, avrebbero potuto lavorare per 10 centesimi l’ora anche loro. Poi arrivò Trump, l’orco protezionista, con la sua clava fatta di dazi e tweet, e picchiò forte sulle esportazioni cinesi gridando: “America first!” — ma la voce era quella del capitalismo in crisi, che non sapeva più a che santo votarsi dopo aver delocalizzato pure il buon senso. Il capitalismo dell’austerità ha sostituito la crescita con la potatura. Un po’ come curare un albero malato segandogli il tronco. Così, mentre le élite fanno brunch tra i grafici del PIL, ai lavoratori resta la minestra — quella riscaldata dei sussidi dimezzati e dei contratti a tempo determinatissimo. Dicono che i dazi siano serviti a difendere l’industria americana: nel frattempo, l’unico settore che prospera è quello delle armi… e delle opinioni su YouTube. La guerra commerciale USA-Cina è il remake malriuscito di Guerre Stellari, ma con meno effetti speciali e più consiglieri economici in completo grigio topo. Trump impone dazi, la Cina risponde con panda robot che fabbricano microchip mentre sorvegliano i cittadini con droni a forma di colibrì. E nel mezzo? Noi. Europei. A metà tra l’ipocrisia e la Merkel-nostalgia, osserviamo da bordo campo, con la socialdemocrazia che barcolla come un vecchio pugile suonato. Il welfare è diventato un brutto ricordo, come il modem a 56k. Tagli su tagli fino a fare invidia ai saldi di gennaio. Ma tranquilli: ci dicono che “l’economia si riprenderà”. Sì, certo, come un pugile dopo il KO. E intanto, nei talk show, economisti da salotto pontificano su “resilienza” e “merito” mentre fuori la gente fa la fila al discount sperando in una promozione: una scatoletta gratis ogni tre CV inviati a vuoto. Poi, come in ogni favola che si rispetti, arriva la morale: serve un nuovo modello. Una “economia della solidarietà”, dicono. Ma lo dicono piano, sottovoce, come se avessero paura che qualcuno li senta — tipo il Fondo Monetario, o Elon Musk. D’altronde, parlare di giustizia sociale oggi è come proporre un falò di SUV nel centro di Milano: radicale, poetico, inutile. Eppure, tra le crepe del sistema, qualcosa si muove. Forse un brivido di coscienza, forse solo l’ennesimo specchio infranto. Ma una cosa è certa: il capitalismo non è morto. Sta solo cambiando costume. Come ogni illusionista, ha bisogno di crisi per sembrare ancora indispensabile. Ma il trucco si vede. E il pubblico comincia a fischiare.

L’economia dei dazi: il nuovo volto delcapitalismo in crisi

Negli ultimi anni, l’economia mondiale è stata scossa da eventi e decisionipolitiche che hanno svelato le fragilità insite nel sistema capitalistico. Tra queste,le politiche protezionistiche e le guerre dei dazi rappresentano sintomi evidenti diun processo che ha radici ben più profonde. La scelta di Trump di imporre dazicontro la Cina, ad esempio, non può essere ridotta a una semplice soluzionetecnica per salvaguardare l’industria americana, bensì deve essere letta comeparte di una strategia molto più complessa, volta ad accelerare dinamiche già inatto.Un capitalismo dell’austeritàUna delle chiavi per comprendere questo fenomeno è l’idea di “capitalismodell’austerità”, in cui le politiche economiche non rispondono più esclusivamenteagli interessi di crescita e sviluppo, ma sono fortemente influenzate da logiche dicontenimento e riduzione della spesa sociale. In questo contesto, Trump sembraaver fatto emergere la dimensione politica dell’economia, mostrando che laglobalizzazione non è una tendenza naturale e inevitabile dell’essere umano, maqualcosa costruito su specifiche scelte ideologiche e politiche. La realtà è chemolte delle dinamiche economiche attuali non sono casuali, ma derivano da unalunga serie di trasformazioni strutturali che hanno reso il sistema sempre piùfragile e inclinato a creare disuguaglianze.L’economia, i lavoratori e il declino del welfareUn punto centrale del dibattito riguarda il destino dei lavoratori: la globalizzazionespinge una competitività feroce, spesso segnando il passaggio di produzioneverso paesi con diritti sindacali negati o salari irrisori. Negli Stati Uniti, peresempio, l’idea che i dazi possano “salvare” i lavoratori impoveriti è stataampiamente discussa e criticata: dietro questi provvedimenti si nasconde iltentativo di controbilanciare anni di deindustrializzazione e tagli al welfare.Similmente, in Italia e in Europa, la sostituzione dell’assistenza sociale a favore di misure che cercano di rafforzare la competitività globale ha lasciato indietromolte fasce della popolazione, con conseguenze che si stanno manifestando informe di degrado e precarietà sul lavoro.Il taglio alla spesa sociale, come evidenziato dal recente piano di riforme negliStati Uniti, in cui si prevede un taglio di ben 2 trilioni e 222 miliardi di dollari, è unchiaro segnale del fatto che la politica economica si sta spostando verso unmodello di “guerra di classe”. Questo sistema, infatti, non solo penalizza ilbenessere dei cittadini, ma mina anche i fondamenti della democraziaeconomica stessa, portando a una crescente polarizzazione tra “i produttori” e “icapitalisti” dei conglomerati privati.La guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina: una questionegeopoliticaIl dibattito sui dazi non riguarda solo aspetti economici interni, ma assume unadimensione geopolitica di grande rilievo. La decisione di Trump di attaccare laCina con dazi elevati è da interpretarsi come un tentativo di frenare la crescita diuna superpotenza economica che, negli occhi degli Stati Uniti, sta assumendo unruolo sempre più dominante a livello globale. Le esercitazioni militari cinesi vicinoa Taiwan, commentate come “a colpi veri”, fanno chiaramente capire che dietroogni decisione economica si nascondono strategie di natura militare e politica: senon si riescono a contenere le pressioni economiche con modalità adeguate, sirischia di dover fare i conti con escalation in altri ambiti, come quello militare.Il confronto tra la Cina e gli Stati Uniti sottolinea la contrapposizione tra duemodelli: uno basato su un capitalismo autoritario e un controllo statale capillare,e l’altro su una democrazia che, pur essendo pluralista, ha ceduto in parte allalogica della deregolamentazione e della delocalizzazione. La crisi degli ultimianni evidenzia come le dinamiche globali forzino i governi a riconsiderare leproprie strategie di sviluppo economico e di welfare state, cercando un equilibriotra la necessità di competere sul mercato globale e quella di garantire sicurezzasociale ai propri cittadini.Un futuro incerto: necessità di un’economia dellasolidarietàDi fronte al rischio di inasprimento dei conflitti commerciali e geopolitici, diventaurgente ripensare le basi stesse del sistema economico attuale. L’obiettivo nonpuò essere semplicemente quello di attribuire la colpa a un paese o a un’altraparte, ma di cercare una soluzione che promuova una “democrazia economica”,in cui la solidarietà e la partecipazione diretta dei lavoratori siano al centro dellaprogettazione delle politiche pubbliche.Proprio questo approccio alternativa sottolinea l’importanza di un modello misto, in cui lo Stato ha un ruolo attivo nel proteggere i settori produttivi e nel garantirecondizioni decenti per i lavoratori, contrapposto a una tendenza globale che, innome della competitività, indebolisce la coesione sociale. La crescentepolarizzazione tra modelli economici – da una parte quello progressista, che miraalla crescita della classe media e alla protezione sociale, e dall’altra quelloneoliberista, basato sulla deregolamentazione delle economie e sullosfruttamento intensivo del lavoro – è un tema che richiede una profondariflessione e un impegno collettivo da parte di tutte le forze sociali e politicheimpegnate nella trasformazione del capitalismo attuale.In conclusione, la questione dei dazi e la guerra commerciale tra Stati Uniti eCina sono solo l’ultimo capitolo di una lunga storia segnata da trasformazionistrutturali e da conflitti di interesse interni ed esterni. Se da un lato ilprotezionismo potrà sembrare una misura schermante contro le crisieconomiche, dall’altro esso non è in grado di risolvere le fondamenta di unsistema che ha già mostrato evidenti segni di cedimento. Solo una revisioneradicale del modello economico, che metta al centro la dignità dei lavoratori e lagiustizia sociale, potrà gettare le basi per un futuro in cui il progresso non sia piùsinonimo di esclusione e impoverimento.

“Comprare è un dovere patriottico (soprattutto se sai prima cosa succede dopo)”

“Comprare è un dovere patriottico (soprattutto se sai prima cosa succede dopo)” Ore dopo, le tariffe protezionistiche vengono congelate. Tutte tranne quelle verso la Cina, ovviamente, perché, si sa, nel Risiko della geopolitica qualcuno deve pur finire nel parco della ZTL commerciale. E le Borse? Boom. Esplodono di entusiasmo, come adolescenti al concerto dei BTS. Wall Street rimbalza. Gli indici si tingono di verde, e no, non è per l’ecologia. A quel punto, qualcuno comincia a farsi delle domande: ▶ E se il “great time to bui” non fosse stato solo un refuso con caps lock ma un segnale in codice? ▶ E se fosse stato un avviso per pochi, ma ottimi amici? ▶ E se il giorno dopo scoprissimo che a comprare, quando tutto era ai minimi, sono state società collegate a qualcuno che nel pomeriggio ha sospeso i dazi? Benvenuti nella nuova frontiera del capitalismo motivazionale: compra basso, vendi alto, e se possibile… scrivilo prima in maiuscolo. Nel frattempo su Truth Social piovono reazioni. Alcuni sostenitori gridano al genio visionario: “Lo diceva anche Nostradamus, solo che lui usava quartine e non tweet.” Altri, un po’ meno convinti, suggeriscono che “bui” fosse in realtà l’inizio di un colpo di tosse digitato per sbaglio. Ma nel cuore della notte, quando le borse chiudono e i bot dormono, qualcuno si chiede: E se fosse tutto stato orchestrato? Se fosse l’invenzione di un nuovo strumento finanziario? Il “pump & tweet”. Un tempo c’erano gli insider trader. Oggi c’è l’“influencer trader”: l’unico che può muovere i mercati con un post sgrammaticato e poi cambiare la politica commerciale in serata. In un Paese dove la realtà è opzionale, l’unica certezza è questa: Se ti svegli presto, leggi Truth Social, compri quello che ti dice “il tizio con la cravatta rossa”, e poi lui cambia la politica commerciale, non è fortuna. È capitalismo quantistico.  

Trump Imparerà Ad Amare il Digital Yuan

“La Guerra delle Valute: come imparai a non preoccuparmi e ad amare il Digital Yuan” di Luciano Di Gregorio, cronista di un mondo che cambia C’era una volta l’America. Letteralmente. Aveva un sogno, una bandiera, e soprattutto una valuta che poteva comprarti tutto: benzina, democrazia, e un SUV con la bandiera sopra. Poi un giorno si svegliò e scoprì che i ponti digitali cinesi erano più veloci dei suoi tweet. Donald Trump, sempre sobrio come un brindisi a Capodanno, ha deciso che era il momento di piantarla con la diplomazia e passare all’arte dell’affronto fiscale. Tariffe del 104% su tutto ciò che arriva dalla Cina: dalla maglietta del dragone al cavo USB che serve a ricaricare l’iPhone con cui postare #MAGA. Ma, sorpresa: Pechino non ha reagito con missili o minacce. Ha semplicemente… codificato. Il Digital Yuan, ovvero il fratello nerd del vecchio renminbi, ora si fa largo nei corridoi del commercio internazionale con l’eleganza di una ballerina su TikTok. Non passa più da New York, non chiede permesso a Londra. Si muove. In sette secondi. E mentre lo Swift ansima come una balena spiaggiata, il One digitale nuota tra ASEAN, Medio Oriente e sei paesi europei che un tempo si vergognavano a dirlo, ma ora ammettono che il dollaro non è poi così cool. Il messaggio è chiaro: se Washington costruisce muri, Pechino stampa QR Code. Altro che Via della Seta: questa è la Via della Silicon Valley cinese, dove ogni click è un colpo al cuore del sistema Bretton Woods. Altro che Vietnam, ora il campo di battaglia è il back-end di un wallet digitale. E mentre il digital yuan si infiltra nei gangli dei mercati globali, l’America si ritrova con una crisi da identity theft: “Chi siamo noi senza il dollaro sovrano?”, si chiede un funzionario della Fed mentre tenta di capire come funziona WeChat Pay. Spoiler: è già tardi. Nel frattempo, nei supermercati USA, un iPhone da $1200 diventa un oggetto di lusso, come il tartufo o l’educazione universitaria. Le aziende americane – abituate a montare prodotti con pezzi cinesi, cacciaviti messicani e slide motivazionali – scoprono che l’autarchia industriale è bella solo nei discorsi elettorali. Ma attenzione: non è che la Cina sia diventata improvvisamente il nuovo Gandhi monetario. È solo più strategica. Sa che oggi le guerre si combattono con reti, pagamenti, standard. Non più con eserciti, ma con algoritmi. E ogni transazione in yuan è un voto contro l’impero della carta verde. La verità è che la multipolarità valutaria non è un film di fantascienza. È un cartellone pubblicitario che recita: “Coming soon to a country near you”. I BRICS lo avevano promesso, e adesso Pechino lo sta installando come fosse l’aggiornamento di sistema di un nuovo mondo. E così, mentre noi discutiamo ancora se il contante vada abolito o se i Bitcoin siano il nuovo oro, il digital yuan è già nei circuiti. Già nelle banche. Già negli accordi. Silenzioso. Inevitabile. Elegantemente autoritario come solo una criptovaluta di Stato può essere. Insomma, siamo entrati nell’era della geopolitica delle app. E forse un giorno i nostri nipoti leggeranno nei libri di scuola (digitali, ovviamente): “Una volta c’era il dollaro. Poi arrivò il One. E nessuno pagò più per aspettare tre giorni un bonifico.” Nel frattempo, il mondo si divide tra chi teme la dedollarizzazione, chi la nega… e chi ha già scaricato l’app del One digitale.

Il grande ritorno del muro… doganale!

Il grande ritorno del muro… doganale! Ovvero come salvare l’economia a colpi di dazio e nostalgia industriale C’era una volta un’America potente, fiera e produttiva, dove le fabbriche sputavano acciaio come draghi patriottici e i jeans si facevano con il sudore del Midwest, non con il risparmio asiatico. Poi arrivò la globalizzazione, con le sue offerte 3×2 e il temibile “Made in China”, e tutto cambiò: gli operai diventarono rider, le fabbriche si trasformarono in loft, e l’unica cosa prodotta in patria era l’indignazione. Ma ecco che dal cielo, in un tripudio di cravatte rosse e tweet impulsivi, scese lui: il Protettore Supremo del Prodotto Nazionale, l’uomo che avrebbe reso grande di nuovo non solo l’America, ma anche i dazi, i confini e i magazzini pieni di frigoriferi patriottici. Donald Trump. Il Robin Hood delle tariffe, che toglieva alle multinazionali per ridare… alle multinazionali con sede in Ohio. La strategia? Semplice. Imporre dazi sui prodotti stranieri per convincere le aziende a tornare in patria. Un po’ come aumentare il prezzo dei voli internazionali sperando che la gente torni a farsi le vacanze a Pomezia. Geniale. E chi se ne frega se poi l’iPhone costa come un rene — almeno il rene è americano. Il concetto chiave è chiaro: meglio un bullone yankee arrugginito che un dispositivo elettronico perfetto ma cinese. E se la signora Maria al mercatino dovrà spendere 150€ invece di 15 per un paio di jeans, che sia! Almeno quei jeans saranno imbevuti di libertà, bandiere e disoccupazione riconvertita. I critici, si sa, non capiscono il genio. Parlano di “rischi di guerra commerciale”, “inflazione”, “isolamento economico”. Ma sono gli stessi che pensano che il protezionismo sia roba del passato. In realtà, è il futuro! Basta rispolverarlo con un po’ di retorica, due slogan e qualche minaccia velata alla Germania. In conclusione, l’America protezionista è un po’ come un vecchio rockettaro che vuole rimettere insieme la band, ma senza sapere che il chitarrista ora vive in Vietnam, il batterista lavora per Amazon, e il bassista è un algoritmo. Ma non importa: con un bel dazio e tanta nostalgia, tutto tornerà come prima. O almeno ci divertiremo a guardare il tentativo.

Trump: “Che giornata!” Ma tranquilli, ne stanno arrivando altre. E sono sempre più grandi. Come i dazi.

Trump: “Che giornata!” Ma tranquilli, ne stanno arrivando altre. E sono sempre più grandi. Come i dazi. “Che giornata, ma sono in arrivo altre grandi giornate.” Così ha twittato — pardon, truthtato — Donald Trump sul suo social preferito, Truth Social, il luogo dove la verità si prende una vacanza e si mette in costume arancione. L’annuncio arriva dopo la brillante idea di una tregua commerciale di 90 giorni con tanto di eccezione: dazi al 125% per la Cina. Per chi non fosse pratico di matematica trumpiana, funziona così: si chiama “tregua”, ma si spara lo stesso — basta mirare meglio. La Casa Bianca, intanto, ha rilasciato una nota ufficiale: “Il Presidente sta bene, mangia regolarmente, parla da solo solo nei corridoi stretti, e crede fermamente che le giornate si possano misurare in altezza, come i grattacieli.” La scienza conferma: “Una giornata trumpiana può pesare fino a 2,5 tonnellate di propaganda” Secondo il prestigioso Istituto Americano delle Cose Che Sembrano Vero Ma Non Lo Sono™, una “grande giornata” in linguaggio trumpese è quella in cui: In arrivo nuove giornate: alcuni americani chiedono asilo politico… a TikTok Mentre i mercati barcollano e il concetto di “accordo” si piega come una cravatta Made in China, il popolo americano si prepara a vivere queste “grandi giornate” con il fiato sospeso e il portafoglio vuoto. Un nuovo movimento sta nascendo sui social: “Keep America Confused Again”. Si vocifera che anche il calendario abbia chiesto un cambio di contratto: “Non voglio più essere settimanale, voglio diventare stagionale. Così salto direttamente a novembre.”

Rivoluzione a Bruxelles: il burro d’arachidi non passerà!

Bruxelles, 2025 – La guerra commerciale è cominciata. Ma dimenticatevi carri armati e droni: qui si combatte a colpi di jeans, whisky e tosaerba. L’Europa, stanca di farsi schiacciare dal peso del Made in USA, ha deciso di rispondere. E lo ha fatto colpendoli dove fa più male: tra l’Harley Davidson e il burro d’arachidi. Sì, avete capito bene. L’UE ha preso il casco integrale della diplomazia, ci ha messo dentro una bottiglia di Champagne (non tassata, tranquilli, c’è l’esenzione bipartisan) e ha accelerato verso la rappresaglia commerciale. La geopolitica spiegata in tre snack americani Il documento europeo, partorito con più litigi che una riunione di condominio, elenca con precisione chirurgica le armi di distruzione doganale: In breve, si tratta della prima guerra della storia combattuta con snack e lavatrici. E attenzione: nessun tosaerba sarà risparmiato. Barbon escluso: quando il whisky si salva per meriti diplomatici In mezzo alla lista delle vittime commerciali, spunta l’unico superstite eccellente: il barbon (leggasi: bourbon). Grazie all’intervento congiunto di Italia, Francia e Irlanda – anche noti come l’Asse degli Alcolici – il prezioso liquido ambrato è stato graziato. Il motivo ufficiale? “Tutelare la tradizione dei distillati.” Il motivo ufficioso? “Non possiamo affrontare un vertice UE sobri.” Harley Davidson, simbolo da colpire. Perché l’UE ama le biciclette Punire le moto americane è un gesto forte, quasi freudiano. Da una parte, c’è l’UE, con le sue piste ciclabili, le sue e-bike, e i suoi cittadini che bevono acqua frizzante e leggono Etienne Balibar. Dall’altra, l’americano medio: giubbotto di pelle, moto da 800 cavalli, aria di libertà e scappamento libero. Un rapporto impossibile. E dunque la vendetta è servita: dazi dal 15 aprile, e rombo ridotto al silenzio. Il dialogo secondo Bruxelles: bazooka doganale in una mano, trattato nell’altra La Commissione ha chiarito: “Non vogliamo una guerra commerciale, vogliamo solo che l’altra parte capisca che siamo seri.” Frase che tradotta in linguaggio non-diplomatico significa: “Parliamo pure, ma intanto vi tassiamo i pop corn come fossero diamanti.” Prossime mosse: dazi sul ketchup? Sul baseball? Sull’accento texano? Fonti non confermate parlano già della seconda ondata di sanzioni. Nel mirino: Conclusioni: la guerra dei dazi è la nuova guerra fredda. Ma con meno ideologia e più marketing L’Europa lancia segnali. Washington risponde con meme e minacce. Intanto i consumatori guardano i prezzi del succo d’arancia e si chiedono: “Ma non potevano litigare su qualcosa di meno zuccherato?” Nel frattempo, un nuovo equilibrio globale si profila all’orizzonte: – Le Harley diventano oggetti di lusso, – Il Kentucky si prepara al Proibizionismo 2.0, – E i cittadini europei iniziano a scoprire che sì, anche l’acqua di cocco può andare bene col pane tostato. Prossimamente: Titolo: “Rivoluzione a Bruxelles: il burro d’arachidi non passerà!” di Luciano Tariffa, inviato speciale con passaporto e sarcasmo Bruxelles, 2025 – La guerra commerciale è cominciata. Ma dimenticatevi carri armati e droni: qui si combatte a colpi di jeans, whisky e tosaerba. L’Europa, stanca di farsi schiacciare dal peso del Made in USA, ha deciso di rispondere. E lo ha fatto colpendoli dove fa più male: tra l’Harley Davidson e il burro d’arachidi. Sì, avete capito bene. L’UE ha preso il casco integrale della diplomazia, ci ha messo dentro una bottiglia di Champagne (non tassata, tranquilli, c’è l’esenzione bipartisan) e ha accelerato verso la rappresaglia commerciale. La geopolitica spiegata in tre snack americani Il documento europeo, partorito con più litigi che una riunione di condominio, elenca con precisione chirurgica le armi di distruzione doganale: In breve, si tratta della prima guerra della storia combattuta con snack e lavatrici. E attenzione: nessun tosaerba sarà risparmiato. Barbon escluso: quando il whisky si salva per meriti diplomatici In mezzo alla lista delle vittime commerciali, spunta l’unico superstite eccellente: il barbon (leggasi: bourbon). Grazie all’intervento congiunto di Italia, Francia e Irlanda – anche noti come l’Asse degli Alcolici – il prezioso liquido ambrato è stato graziato. Il motivo ufficiale? “Tutelare la tradizione dei distillati.” Il motivo ufficioso? “Non possiamo affrontare un vertice UE sobri.” Harley Davidson, simbolo da colpire. Perché l’UE ama le biciclette Punire le moto americane è un gesto forte, quasi freudiano. Da una parte, c’è l’UE, con le sue piste ciclabili, le sue e-bike, e i suoi cittadini che bevono acqua frizzante e leggono Etienne Balibar. Dall’altra, l’americano medio: giubbotto di pelle, moto da 800 cavalli, aria di libertà e scappamento libero. Un rapporto impossibile. E dunque la vendetta è servita: dazi dal 15 aprile, e rombo ridotto al silenzio. Il dialogo secondo Bruxelles: bazooka doganale in una mano, trattato nell’altra La Commissione ha chiarito: “Non vogliamo una guerra commerciale, vogliamo solo che l’altra parte capisca che siamo seri.” Frase che tradotta in linguaggio non-diplomatico significa: “Parliamo pure, ma intanto vi tassiamo i pop corn come fossero diamanti.” Prossime mosse: dazi sul ketchup? Sul baseball? Sull’accento texano? Fonti non confermate parlano già della seconda ondata di sanzioni. Nel mirino: Conclusioni: la guerra dei dazi è la nuova guerra fredda. Ma con meno ideologia e più marketing L’Europa lancia segnali. Washington risponde con meme e minacce. Intanto i consumatori guardano i prezzi del succo d’arancia e si chiedono: “Ma non potevano litigare su qualcosa di meno zuccherato?” Nel frattempo, un nuovo equilibrio globale si profila all’orizzonte: – Le Harley diventano oggetti di lusso, – Il Kentucky si prepara al Proibizionismo 2.0, – E i cittadini europei iniziano a scoprire che sì, anche l’acqua di cocco può andare bene col pane tostato. Prossimamente:

Dazi, dogane e dignità perdute: anatomia di un mondo che si fa la guerra con le bollette doganali

Dazi, dogane e dignità perdute: anatomia di un mondo che si fa la guerra con le bollette doganali   Un tempo la globalizzazione era un sogno: merci che viaggiavano, culture che si contaminavano, e cellulari assemblati in sei paesi diversi prima di finire a terra nel bagno di casa. Poi qualcuno ha deciso che condividere è comunismo, e che ogni Stato deve tornare a produrre da solo i propri bulloni, possibilmente a mano e con orgoglio patriottico. Così sono tornati loro: i dazi, quei simpatici balzelli da Ottocento, oggi rilanciati in versione deluxe da leader politici con il pollice sul Twitter e l’indice sul bazooka commerciale. Il dazio come terapia d’urto per economie stressate (dagli stessi che le guidano) I dazi sono diventati come la tachipirina dei governi: non importa quale sia il problema – disoccupazione, bilancia commerciale, mal di pancia elettorale – si risponde sempre con un “mettiamoci sopra un dazio e vediamo se passa”. Peccato che non passi. Anzi, spesso peggiora. Appena alzi un dazio, qualcuno lo vede, rilancia, e inizia il valzer delle vendette fiscali. Risultato? Una “guerra commerciale” dove tutti combattono per proteggere i propri lavoratori, finendo per licenziarli comunque. Globalizzazione: la grande amica tradita (ma solo quando fa comodo) Abbiamo voluto delocalizzare tutto: le fabbriche, le competenze, perfino le responsabilità politiche. Abbiamo chiuso un occhio sullo sfruttamento in nome del risparmio, abbiamo applaudito al libero scambio mentre compravamo vestiti a cinque euro cuciti da mani troppo piccole per votare. E adesso? Ora che la Cina è diventata un colosso e il Bangladesh ci manda newsletter economiche, si grida allo scandalo: “ci rubano il lavoro!” Come se fossimo stati derubati, e non complici. Il reshoring e il mito del “fare tutto in casa” (con materiali cinesi) Il ritorno della produzione in patria, chiamato “reshoring” da chi vuole farlo sembrare una strategia e non una pezza, è la nuova grande idea. Peccato che, per fare “tutto da soli”, servano ancora le materie prime degli altri, la tecnologia dei vicini e la manodopera che si lamenta poco. Così si produce in Italia con componenti vietnamiti, si esporta in America con packaging giapponese e si dichiara “orgoglio nazionale” perché la scatola è blu. Nel frattempo, i Paesi in via di sviluppo, che si erano finalmente aggrappati alla scialuppa della manifattura globale, vengono lasciati al largo: “Ci dispiace, abbiamo deciso di salvarci da soli. Buona fortuna con il microcredito.” L’Europa come capro espiatorio di professione Nell’arena della colpa internazionale, l’Europa è la zia che sbaglia sempre regalo. Troppo ecologista, troppo equa, troppo… europea. Viene accusata di aver imposto regole ambientali, difeso i diritti umani, e altre sciocchezze simili. Insomma: non è abbastanza cinica per sopravvivere nel mercato globale dominato da chi grida “America First” o “Cina Uber Alles”. E così, mentre Bruxelles cerca compromessi e salvaguardie, Washington e Pechino si scambiano testate… commerciali. La globalizzazione è morta. Evviva la globalizzazione (con altri fornitori) Oggi tutti dicono che la globalizzazione è finita. Ma non è vero. È semplicemente cambiato l’algoritmo: si globalizza dove conviene, si chiude dove serve un titolo di giornale, si colpisce a rotazione come in un risiko stanco. Il problema non è “il mondo aperto”. Il problema è la classe dirigente che gioca al risiko col mondo chiuso in uno zaino a stelle e strisce. Conclusione: un mondo in guerra con se stesso, ma in giacca e cravatta Il vero rischio di questa nuova stagione protezionista non è solo la recessione. È la normalizzazione del cinismo economico, dove ogni mossa è giustificata da “interesse nazionale” e ogni errore da “colpa degli altri”. Il rischio è che, cercando di salvare il proprio giardino, bruciamo la foresta. Ma tranquilli: se tutto va a rotoli, basterà un altro dazio. O una conferenza stampa. O un tweet.

L’Inter gioca a calcio. Il Bayern gioca a nascondino.

L’Inter gioca a calcio. Il Bayern gioca a nascondino. Corrispondente dal futuro dove il VAR applaude l’Inter MILANO – L’Inter ha vinto. Ma non una vittoria normale. No. Ha vinto con classe, con coraggio, con strategia e soprattutto con la sublime arte di far sembrare il Bayern Monaco una squadra iscritta al torneo aziendale delle Poste Tedesche. Lautaro e Frattesi: l’asse del Bene contro il Male (in maglia rossa) La partita comincia e Lautaro fa subito capire che oggi non si scherza. Si muove, segna, pressa, si pettina. Frattesi entra e spruzza dinamite centrocampistica da ogni poro. Il Bayern osserva, prende appunti e chiede: “Scusate, possiamo giocare anche noi?” Sommer: “Tranquilli, ho chiuso la porta. E ho buttato via la chiave.” Il portiere svizzero, con la freddezza tipica di chi affronta i rigori come fossero sudoku, para tutto. Para anche l’ansia, le statistiche e due passaggi sbagliati di Acerbi. Quando arriva il Bayern in area, Sommer si limita a guardarli come si guarda un piccione che tenta di entrare in un bar: confuso, inoffensivo, fuori luogo. Secondo tempo: Inzaghi attiva la modalità “Subentra e spacca tutto” Nel secondo tempo, con un gesto teatrale degno del miglior Cesare al Colosseo, Simone Inzaghi richiama alcuni titolari per far entrare la Banda degli Inascoltati. Risultato? Gol, pressing, allegria e un Bayern sempre più vicino a chiamare l’uscita d’emergenza. Turan: “Mi sento leggero, corro come se rubassi tempo e spazio” Turan gioca come se fosse guidato da Google Maps in modalità distruggi difese. Parte da centrocampo, arriva in area, torna indietro a prendere il caffè, poi va di nuovo a segnare. In un’azione, anticipa l’avversario e passa la palla con così tanto anticipo che probabilmente la FIFA lo segnalerà per “viaggio temporale non autorizzato”. Il famoso “calcio di riletto” Momento magico: Turan esegue il famigerato “calcio di riletto”, una tecnica ancestrale nota solo a chi ha studiato arte marziale calcistica a Coverciano. Palla lisciata al millimetro per confondere l’universo. Risultato? L’azione diventa poesia. Il Bayern applaude. I cronisti piangono. L’arbitro si fa l’autografo da solo. Inter da Inter: quando l’Inter non Intera A fine partita, tutto il mondo si chiede: che Inter è questa? Risposta: è l’Inter che non fa l’Inter, ma che gioca come se avesse ricevuto un aggiornamento software. Difende come un esercito imperiale, attacca come una banda di jazzisti impazziti e vince come una squadra seria. I tifosi, solitamente pronti a chiamare Striscia la Notizia dopo un pareggio, oggi stanno prenotando lo scudetto su Amazon Prime. Conclusione: Bayern annientato, Inter glorificata, cronisti confusi. Il Bayern, al ritorno in Germania, ha chiesto se può cambiare sport. Il presidente ha dichiarato: “Dopo questa partita, pensiamo di iscriverci a un campionato di bocce.” L’Inter invece guarda avanti: il calendario dice “prossima partita”, ma la squadra sta già pensando alla finale di Champions, alla Supercoppa galattica e, perché no, alla candidatura all’UNESCO come patrimonio calcistico dell’umanità.