Vasco, la voce che resiste nella notte dell’ignoranza In un mondo in frantumi, dove la storia sembra rovesciarsi su se stessa e le parole svuotarsi di senso, Vasco Rossi sceglie la resistenza. E la fa cantando. Non è solo una rockstar, non lo è da tempo. Vasco è diventato — forse suo malgrado — una coscienza collettiva, viscerale e fragile, che si sporca le mani con il presente e lo attraversa con uno sguardo ferito ma lucidissimo. In un’intervista a La Stampa, alla vigilia del suo nuovo tour, Vasco non parla solo di musica. Parla di guerra, di ignoranza, di potere, di Resistenza. E lo fa con parole che hanno il peso di chi sa cosa significa mettersi in gioco. “Oggi al potere c’è l’ignoranza. La Resistenza è un concetto chiave. Resistere al sopruso è sacrosanto.” In un’epoca di revisionismi, di fascismi camuffati da folklore, di presidenti del Senato che non rinnegano nulla, Vasco parla chiaro, come da sempre fa nei suoi testi. E lo fa ricordando suo padre, che nel ’43 rifiutò di combattere con i nazisti e finì deportato in un campo a Dortmund. Non lo dice per retorica, lo dice per radicamento nella verità. Lo dice per rispetto. “Ha preferito il lager piuttosto che combattere con i tedeschi contro gli italiani.” Ecco cos’è la Resistenza oggi: non un appuntamento stanco del calendario, ma una scelta esistenziale. È scegliere di non collaborare col disumano, fosse anche solo con il silenzio. È restare lucidi mentre tutto intorno si sfalda. E per Vasco, è anche cantare. Il suo tour 2024 parte il 31 maggio da Torino, già sold out. Ma non sarà solo una festa. Sarà un rito civile. Un concerto di luce, amore, provocazione e coscienza, perché – come dice lui – “le mie canzoni sono atti d’amore. E la provocazione deve risvegliare le coscienze”. Il tema di quest’anno? La vita. Ma non in senso astratto: la vita reale, quella presa a pugni ma ancora in piedi, quella “spericolata, complicata, fiera”. La vita che resiste, mentre fuori si alzano nuovi muri, nuovi autoritarismi, nuove guerre. La vita che non si arrende, neanche quando sembra inutile farlo. “Mai come quest’anno è il caso di celebrarla. Di fronte a questo mondo pieno di odio e guerre, noi celebriamo la vita, l’amore e la pace.” Vasco ha abbracciato la consapevolezza, dice. Pratica il “qui e ora”, respira, ascolta il silenzio. Ma non è un rifugio spirituale: è un modo per non farsi travolgere dal rumore tossico dell’epoca. È resistenza mentale. In un Paese dove si glorifica l’ignoranza travestita da identità, dove la parola “pace” è diventata sospetta e la cultura viene dileggiata, Vasco è un paradosso vivo: un cantautore di massa che parla di resistenza, di filosofia orientale, di consapevolezza. E viene capito. Amato. Seguito. Perché è sincero. Perché non si è mai piegato alle mode del pensiero unico. Perché non ha paura di essere fragile. In fondo, Vasco è come noi. Solo che ha il coraggio di dirlo prima. E di gridarlo meglio. E così, in questo tempo che ci disorienta e ci divide, la sua voce resta un faro sghembo ma luminoso, un graffio nel buio che ricorda a tutti che si può ancora resistere cantando.
Il Silenzio che Urla: quando la seconda carica dello Stato parla come un commentatore da bar
Il Silenzio che Urla: quando la seconda carica dello Stato parla come un commentatore da bar C’è un silenzio che pesa più di mille dichiarazioni, ed è quello sull’eredità del fascismo. Un silenzio che si ostina a non diventare condanna. Anzi, che a volte si maschera da orgoglio genealogico, da ambiguità storica, da nostalgia involontaria ma ben coltivata. E poi c’è un linguaggio che non dovrebbe esistere. Non nelle istituzioni. Non dalla voce della seconda carica dello Stato. Non da chi, nel 2024, dovrebbe rappresentare tutti i cittadini — anche quelli che scrivono romanzi, che fanno domande, che dissentono. Il caso Scurati-La Russa non è una polemica culturale. Non è uno scontro tra narcisismi o sensibilità politiche diverse. È una questione di democrazia. Perché nel momento in cui il Presidente del Senato — figura istituzionale, garante, non polemista da talk show — denigra un cittadino che esercita il proprio diritto di parola, non sta solo attaccando quella persona. Sta delegittimando il ruolo che ricopre. Quando La Russa risponde ad Antonio Scurati dicendo che “ha fatto fortuna con i libri sul fascismo”, non sta confutando una tesi. Sta scivolando nel sarcasmo da social, nello sberleffo da curva, in quella deriva populista che ha trasformato l’arena politica in uno stadio e le istituzioni in una bacheca Facebook. Eppure, non si tratta solo di stile. Ma di contenuto. Perché in tutto questo, c’è una domanda che resta sospesa: Il Presidente del Senato ha mai rinegato il fascismo? Non è una provocazione. È una domanda legittima, civile, storica. E non rispondere — o peggio, rispondere insultando — è un problema. Perché non si può stare nelle istituzioni e nei dopolavoro fascisti contemporaneamente. Non si può dirigere il Senato della Repubblica Italiana e, allo stesso tempo, sorvolare sul fatto che il regime fascista abolì il Senato stesso, insieme a tutte le libertà civili e politiche. Scurati ricorda che alla Scala, nel 1946, Arturo Toscanini inaugurò il teatro con un concerto simbolo della rinascita democratica, dopo vent’anni di buio. E ha ragione: la Scala non è solo un luogo musicale, ma una cattedrale della libertà riconquistata. Che un uomo che non ha mai rifiutato apertamente il fascismo sieda lì in prima fila è un cortocircuito storico e morale. Non è un attacco personale. È una constatazione. Un grido che parte dalla cultura per raggiungere la coscienza. In questa vicenda, La Russa non è solo colpevole di avere polemizzato con un cittadino. È colpevole di aver utilizzato la sua posizione istituzionale per scagliarsi contro la libertà di espressione. E questo, in una democrazia sana, è un abuso. Perché lo Stato non discute con il cittadino. Lo Stato garantisce al cittadino il diritto di esprimersi. Provate a immaginare il Presidente Mattarella che twitta: “Lilli Gruber è una pessima giornalista.” “Scurati? Scrive solo per vincere premi.” Inimmaginabile, vero? Ma nel tempo dei populismi, l’inimmaginabile diventa pratica quotidiana. Il ruolo istituzionale si fonde con il profilo privato. L’autorevolezza viene sostituita dall’aggressività. E chi dissente diventa “nemico”, non interlocutore. È questa la vera emergenza democratica: una classe dirigente che non distingue più tra funzione e opinione. Tra potere e sfogo. E che, anziché disinnescare il linguaggio dell’odio, lo alimenta. Anziché proteggere la cultura, la colpisce. Anziché garantire pluralismo, si sente minacciata da chi la pensa diversamente. Antonio Scurati, con fermezza e lucidità, ha ricordato a tutti che la cultura non ha paura del potere, ma il potere ha sempre avuto paura della cultura. E quando il potere insulta, denigra e svia, non fa altro che confermare di essere fragile, impaurito, e in fondo, abusivo. Ecco perché, finché una figura istituzionale non rinega apertamente e definitivamente il fascismo, la sua presenza nei luoghi simbolo della democrazia e della cultura non sarà mai pienamente legittima. Lo dice Scurati. Lo dice la storia. E lo dirà anche la coscienza collettiva, se ancora siamo capaci di ascoltarla.
LA LIBERTA’ E’ IN OFFERTA SOLO PER CHI SE LA PUO’ PERMETTERE … QUESTA E’ L’ITALIA CHE VUOI ?
La Libertà è in Offerta: Solo per Chi Se la Può Permettere di Luciano, cittadino non ancora scaduto C’era una volta la libertà. Bella, luminosa, con un po’ di polvere sulle spalle perché, si sa, era stata usata molto durante le rivoluzioni, i movimenti civili, le lotte per i diritti. Poi qualcuno — con un megafono, un account X e un cappellino rosso — ha deciso che la libertà era troppo democratica, troppo distribuita. E ha pensato bene di metterla in vendita. Oggi la libertà è come l’olio extravergine al supermercato: in offerta, ma solo per chi ha la tessera. Chi non ce l’ha? Gli immigrati, i poveri, i precari, quelli che non parlano abbastanza forte da sovrastare le urla di chi si crede libero solo perché può urlare. Libertà di togliere libertà È il nuovo modello occidentale: libertà di escludere, libertà di odiare, libertà di rimandare indietro. E quando dici: “Scusa ma questo non è un po’ fascista?” Ti rispondono: “È la mia opinione”. Come se l’opinione fosse un pass per sospendere la Costituzione. La libertà, ci dicono, è difendere la patria dalla minaccia esterna: che sia un barcone, una famiglia rom, o una tempesta di neve fabbricata dai democratici in un laboratorio segreto dell’Iowa (sì, è successo davvero). I dazi sulla realtà Nel frattempo Trump, l’uomo che ha avuto un incontro ravvicinato con la candeggina, è tornato. Ha alzato i dazi, non sui prodotti, ma sulla realtà. Ora ogni verità costa il doppio. Se vuoi sapere quant’era piena davvero la piazza del suo comizio, paghi. Se vuoi sapere se la youtuber che ha parlato con lui è una fonte attendibile o una fan della neve radioattiva, paghi. In Italia, intanto, Bruno Vespa tranquillizza i mercati con la grazia di una tisana al bromuro: “La pizza aumenterà di un dollaro.” E i mercati, per tutta risposta, crollano come uno sgabello sotto un elettore indeciso. I social: nuova sede del Ministero della Verità Alternativa Sui social, nel frattempo, si combatte una guerra senza fronti né regole: verità contro narrazioni, dati contro “sensazioni”, scienza contro “me l’ha detto mio cugino su Telegram”. La democrazia è diventata una diretta Instagram, la realtà un filtro bellezza. E tu, se osi dire: “Aspetta, ma questa cosa è falsa…”, vieni bannato. Per violazione degli standard della nuova libertà: non contraddire chi grida più forte. La paura come valuta Oggi il PIL si calcola in ansia. Un migrante vale due punti percentuali in meno alle elezioni, ma sei in più nei sondaggi. Un blackout diventa il segnale dell’invasione. Una donna che chiede diritti è “una radical chic globalista”. Un ragazzo che protesta è “un pericolo per l’ordine pubblico”. Il futuro? È una parola che si usa solo al passato. Conclusione: il grande inganno La libertà è diventata un prodotto di marketing. “Difendila!” dicono… mentre la smontano pezzo per pezzo. E tu, che ancora credi nella libertà vera, ti senti spaesato. Ti guardi attorno e ti chiedi: “Ma sono io l’ingenuo? O sono loro che mentono così bene da sembrare veri?” E allora, ecco la verità imprescindibile, quella nuda e senza hashtag: La libertà o è per tutti, o non è per nessuno. Se serve a costruire muri, non è libertà. Se serve a zittire chi pensa diverso, non è libertà. Se ha paura della realtà, non è libertà. È solo un modo elegante di dire prepotenza. E se domani vi venderanno la libertà con lo sconto, diffidate: potrebbe essere scaduta.
La libertà capovolta: il volto oscuro del nuovo populismo globale
La libertà capovolta: il volto oscuro del nuovo populismo globale Viviamo in un tempo in cui la parola “libertà” è stata svuotata di senso e riempita di significati nuovi, grotteschi, rovesciati. È una libertà che non libera, ma esclude. Una libertà che si afferma soltanto nel togliere agli altri: il diritto di migrare, di esprimersi, di vivere. È la libertà secondo la nuova destra populista, che si affaccia sul mondo come una caricatura tragica delle ideologie del Novecento. In Europa si moltiplicano gli attacchi. Cresce la tensione sociale, e cresce la paura. Una paura che non viene più soltanto dagli eventi — attentati, crisi economiche, guerre — ma da una narrazione martellante che li amplifica, li distorce, li brandisce come armi ideologiche. E mentre la violenza cresce, i media minimizzano. I politici accusano. I leader sovranisti, invece, capitalizzano. Il terrore, oggi, è diventato linguaggio. È diventato metodo. Negli Stati Uniti, l’ex presidente Donald Trump ha inaugurato una stagione politica fondata sulla manipolazione sistematica della realtà. Ha parlato di “verità alternative”. Ha detto che i suoi comizi erano affollati anche quando non lo erano. Ha suggerito di iniettarsi candeggina contro il Covid. Ha accolto alla Casa Bianca una youtuber che teorizzava complotti meteorologici orditi dai democratici, e sulla base delle sue parole ha licenziato sei alti funzionari della sicurezza nazionale. Non è satira. È accaduto. La minaccia, dunque, non è solo nei fatti, ma nel modo in cui quei fatti vengono raccontati, interpretati, manipolati. Nella costruzione di una realtà parallela in cui i nemici sono ovunque e la verità è un ostacolo. In questo scenario, la parola “libertà” viene piegata su se stessa. Non significa più ciò che ha significato per secoli — emancipazione, diritti, limiti al potere — ma qualcosa di nuovo, di inquietante: libertà di censurare, libertà di discriminare, libertà di costruire muri. La differenza rispetto alle destre liberali del passato è radicale: mentre queste ultime si battevano per la libertà “da” qualcosa (dall’oppressione, dallo Stato invasivo, dalla burocrazia), le nuove destre lottano per la libertà “di” esercitare un potere assoluto su chi è diverso, debole o straniero. Trump vuole chiudere l’America in un recinto economico, culturale e ideologico. Una sorta di autarchia moderna, che ricorda più i progetti irrealizzabili del comunismo sovietico che il libero mercato americano. Eppure trova consensi. Fino a quando, forse, non tocca il portafoglio. Perché finché si parla di migranti, di muri, di “altro”, il popolo applaude. Ma quando si colpisce il commercio, i prezzi, la vita quotidiana — anche solo per “un dollaro di più sulla pizza” — allora il consenso vacilla. La realtà bussa, e nessuna verità alternativa può tenerla fuori. Intanto in Europa il linguaggio di Trump ha trovato eco. Da Salvini a Meloni, da Le Pen a Orbán, si ripete il copione: i migranti fanno paura, ma sono loro a fuggire dalla paura. La libertà è sacra, ma va difesa togliendola agli altri. I media mentono, tranne quelli che confermano la nostra versione. In questo gioco pericoloso, tutto viene ridotto a piccolezza. Il crollo delle istituzioni democratiche diventa un meme. La crisi climatica, un’invenzione ideologica. Il diritto, un ostacolo burocratico. E il cittadino, un consumatore emotivo. La democrazia non muore in un giorno. Muore quando ci abituiamo a vederla sfigurata. Quando ridiamo delle sue parodie senza più indignarci. Quando smettiamo di chiederci dove finisce la retorica e dove comincia il rischio. Forse oggi siamo già dentro quel momento. E la domanda non è più: “Chi ci salverà?”. Ma: “Chi ci dirà che c’è ancora qualcosa da salvare?”
ITALIA, PRIMAVERA 2025 – IL GOVERNO BALLO SULLA BOMBA (ANCORA ACCESA)
ITALIA, PRIMAVERA 2025 – IL GOVERNO BALLO SULLA BOMBA (ANCORA ACCESA) In un’Italia dove l’economia danza il tip-tap su una mina antiuomo chiamata “inflazione”, la premier Giorgia Meloni sembra aver preso lezioni di equilibrio circense, correndo sopra una bomba che sfrigola più di una padella con l’olio bollente. Il trucco? Non guardare in basso. Mai. Dietro di lei, Giuseppe Conte in versione maratoneta d’opposizione corre e grida “Elezioni!” come un venditore ambulante con un solo prodotto in saldo. E a ben guardare, il popolo italiano si sta preparando al grande spettacolo, popcorn alla mano, in attesa dell’inevitabile botto o, per i più ottimisti, di una magia dell’ultimo secondo. Nel frattempo, Salvini è stato visto armeggiare con Google Maps cercando “dove si trova il consenso”, mentre Tajani continua a parlare in conferenze stampa in cui l’unico spettatore rimasto è la pianta ficus nell’angolo della sala. Tra un decreto sgonfiato e una manovra elastica (ma che tira da una sola parte), il governo sembra più impegnato a rincorrere sondaggi che a gestire le priorità. E mentre gli italiani contano i centesimi come fossero pepite d’oro, Palazzo Chigi risponde con slogan che sembrano usciti da un generatore automatico di frasi motivazionali: “Avanti tutta!”, “Ce la faremo!”, “Abbiamo un piano!” (scritto a matita). Ma tranquilli, l’estate è vicina: tempo di ferie, gelati… e forse un’altra crisi di governo da godersi sotto l’ombrellone.
POLITICA E SATIRA DI APRILE
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Trump, l’uomo che trattava dazi come caramelle
Trump, l’uomo che trattava dazi come caramelle Donald Trump si sveglia la mattina, guarda fuori dalla finestra, si accende l’elmetto immaginario e decide: “oggi lanciamo un dazio”. Poi però ci ripensa. Lo sospende. Lo raddoppia. Lo dirige contro la Cina. O forse no. Forse lo dirotta sull’Europa, così per tenersi in allenamento. Il dazio è il suo yoga, la sua forma di meditazione attiva. Mentre noi facciamo stretching, lui mette il 25% sulle auto tedesche, poi si rilassa con un 10% sui microchip, e conclude la sessione con una tassa punitiva sulla mozzarella di bufala (colpevole, evidentemente, di essere troppo buona). In questi giorni ha concesso una “pausa di 90 giorni sui dazi” – tranne alla Cina, ovvio. Un gesto magnanimo, un po’ come un pitbull che molla il polpaccio della vittima per tre mesi, in segno di pace. Ma attenzione: Trump non è solo tariffe e minacce commerciali. Il 15 aprile, ha in agenda un incontro con il suo vice e, presumibilmente, con se stesso. Per discutere delle solite cosette: smantellare le regole ambientali, ridurre le tasse ai ricchi, spiegare a Zelensky che deve arrendersi perché “così la smettiamo tutti e torniamo a vedere il Super Bowl”. L’Agenda 47, il suo programma per tornare alla Casa Bianca, è un capolavoro: meno tasse, meno leggi, più trivelle, più armi, e via le “burocrazie”. Se gli lasciassimo il tempo, abolirebbe anche l’ortografia. Obiettivi chiari, stile da bar In politica estera, Trump punta tutto sul “dire la verità che non ti puoi permettere di dire”, tipo: “l’Ucraina ha perso”, oppure “la NATO non paga abbastanza”, oppure “ci serve il vostro gas, ma solo se lo pagate tre volte tanto”. Un approccio diplomatico, in stile cowboy ubriaco che negozia la pace con una pistola sul tavolo. Sull’immigrazione, le intenzioni sono limpide: revocare protezioni, costruire nuovi muri, usare le catene, e far pagare il tutto al Messico, o magari all’Unione Europea, perché tanto sono tutti “freeloaders”. E sul digitale? Beh, Musk può dormire sereno: Trump non gli chiederà mai di rimuovere contenuti illegali entro 24 ore. Piuttosto lo nominerà Ministro della Verità, con diritto di replica automatica a qualsiasi fact-checker. Conclusione: Trump è già tornato (nella sua testa) La verità è che Trump non aspetta il 2025. Per lui è già presidente. La pausa dei dazi è già legge. L’Ucraina ha già perso. Il gas è già nostro. E l’Europa? L’Europa è quel posto pieno di regole, di precauzioni, di diritti, di etichette sui cibi, che va messo in riga come uno scolaretto che non vuole bere latte ormonato. Ma attenzione: se la Commissione europea non si piega, se osa ancora difendere il vetro di Murano, il Parmigiano, o — peggio — la salute pubblica, Trump tirerà fuori la sua arma segreta: il documento delle doglianze. Una Bibbia americana fatta di lamentele, richieste impossibili e pretese da impero in saldo. Che poi, a guardarlo bene, non è un piano di governo. È la lista di nozze del capitalismo aggressivo.
Made in Europe: il lusso di morire più tardi
Made in Europe: il lusso di morire più tardi Pare che negli uffici di Washington circoli un documento segreto, lungo quanto la lista della spesa di un ipocondriaco paranoico. È la lettera a Babbo Bruxelles: contiene tutte le lagne, le doglianze, gli sfoghi e le frustrazioni dell’imprenditoria americana. E no, non c’è scritto “pace nel mondo”, ma “meno etichette sui polli imbottiti di ormoni”. Ognuno ha i suoi sogni. In cima alla lista dei desideri c’è la richiesta più nobile: poter vendere in Europa carne che fa venire la barba anche alle galline. “Potenzialmente rischiosa per la salute”, dicono alcuni studi. Ma potenzialmente è tutto: anche inciampare in bagno è potenzialmente letale. Quindi avanti, lasciamoci vivere (ma meglio se in California, che lì è legale). Segue a ruota il dramma degli OGM: in Europa si ostinano a volerli etichettare. Apriti cielo! Come se informare il consumatore fosse un diritto. Se poi, leggendo, sceglie di non comprare, è censura commerciale! Un vero sopruso contro la libertà americana di vendere qualunque cosa con lo zucchero a velo sopra. E poi c’è la questione dei pesticidi. L’UE ne ha vietati 72, che gli USA usano ancora con disinvoltura. Risultato? L’uva californiana rischia di rimanere sulle navi come clandestina agricola. Ma noi europei abbiamo il vizio strano di voler vivere più a lungo. E infatti, spoiler: viviamo mediamente 3 anni di più. In Italia, addirittura 5. Coincidenze? No, sono i benefici collaterali di quel fastidio chiamato precauzione. Sul fronte digitale, la musica non cambia. L’Europa chiede a Musk e compagnia di togliere contenuti illegali in 24 ore. Apriti cielo 2 – la vendetta. “Censura!” gridano dalle poltrone imbottite di Palo Alto. Ma se posti una minaccia o una truffa, forse sì, sarebbe anche ora che qualcuno ti tolga il megafono. E le tasse? Eh. I colossi tech fanno miliardi in Europa ma versano briciole. Poi però piangono perché l’UE li costringe a trattare gli altri competitor come esseri umani. Il Digital Market Act? Un atto di guerra, per loro. In realtà, è solo fine dell’asilo nido. Basta col “io sono Google, quindi faccio come mi pare”. Nemmeno l’arte scampa: la direttiva Huawei impone alle piattaforme di streaming di offrire almeno il 30% di contenuti europei. Una tragedia. Perché – incredibile a dirsi – c’è vita anche oltre Hollywood. E non solo su Netflix: pure nei cinema veri. Ma per loro è protezionismo. Per noi è difendere la cultura. Perché se non lo fa l’Europa, chi lo fa? Topolino? E poi ci sono le denominazioni: basta con il Parmesan da discount che sembra gesso grattugiato, o con i salami made in Ohio che si chiamano “Prosciutto di Parma™”. L’UE ha deciso che le parole hanno un senso. E se scrivi “Murano”, dovrebbe esserci almeno una fornace in zona. Tutto questo, secondo la visione trumpiana, è un attentato all’America. Che ora, nel nuovo ciclo di egemonia dolente, vorrebbe convincere l’UE a cambiare le regole in nome del libero commercio. O, più realisticamente, in nome del fatto che hanno più portaerei e più gas da vendere. Ma c’è una notizia, forse spiacevole, da dare agli amici americani: l’Europa non è una colonia, anche se ogni tanto si comporta come tale. E se c’è un modello che — con tutti i suoi difetti — permette ai cittadini di vivere più a lungo, con più tutele e meno diserbante nel piatto… forse vale la pena difenderlo. Trump vuole trattare? Benissimo. Ma non è detto che dobbiamo inginocchiarci ogni volta che qualcuno a Washington si sveglia e decide che il vetro di Murano è un ostacolo al libero mercato. Perché sì, magari noi europei abbiamo l’aria un po’ snob, un po’ lentina, e facciamo troppe riunioni. Ma alla fine della fiera, moriamo più tardi. E, modestamente, non è un dettaglio da poco.
Donald Trump, l’oracolo dei disastri: un’America che si specchia nel suo delirio
Donald Trump, l’oracolo dei disastri: un’America che si specchia nel suo delirio Tutti, ma proprio tutti, appesi ogni giorno alle labbra di Donald Trump. L’uomo spara una boiata al giorno — a volte due, se ha dormito bene — e il circo mediatico si fionda, sbava, rilancia. È il gioco del cane che rincorre la macchina: non sa perché, ma non riesce a farne a meno. Eppure, se togli il rumore di fondo e guardi bene, una cosa emerge chiaramente da questi mesi: prevedere Trump è inutile. Non perché sia geniale. Perché è illogico. Le sue diagnosi, tutto sommato, sono quelle che farebbe anche un taxista sobrio: l’economia americana è devastata, la classe media è evaporata, la globalizzazione ha fatto terra bruciata. Grazie, Donald. Applausi. Il problema non è quello che vede, è come crede di risolverlo. Le sue “soluzioni” sono una collezione di improvvisazioni da bar di provincia. I dazzi? Mah. Forse nel 1848 avrebbero avuto un senso. Oggi sembrano un tentativo disperato di mettere le dita nei buchi dello scafo mentre la nave affonda. E il suo vice, Vance? Trattato come un troglodita sui media liberal, ha scritto un libro diventato film, Hillbilly Elegy, che racconta il collasso culturale e materiale di un’America interna, bianca, disillusa, drogata — e dimenticata. La stessa America che, per intenderci, Trump cavalca come uno stregone da luna park, fingendo di capirla mentre le vende pentole arrugginite con lo sguardo di chi ha fiutato il business. Poi c’è l’Ucraina. Siamo ancora lì a raccontarci che può vincere, mentre Trump — rozzo, brutale, ma almeno sincero — dice che no, la guerra è persa. Non è diplomazia, non è geopolitica raffinata: è uno che dice a voce alta quello che in molti pensano in silenzio. Male? Forse. Ma più onesto di certe barzellette da comunicato stampa NATO. Immigrazione? Altro problema gigantesco. Le città americane affogano nel caos, nelle tende, nella disperazione. Trump propone catene, muri, manganelli. Roba che fa orrore. Ma l’alternativa sarebbe…? Il silenzio colpevole dei centristi moralisti che parlano di accoglienza mentre vivono in quartieri blindati. Il punto è sempre quello: i problemi ci sono, si vedono a occhio nudo. Le risposte di Trump sono rozze, spesso vergognose, ma sono risposte. La sinistra liberal? Fa le smorfie. Mentre le città bruciano, loro stanno ancora litigando sull’uso corretto dei pronomi. E i nostri opinionisti da salotto? Inviperiti, sdegnati, offesi. Lo chiamano fascista, idiota, criminale. Si esaltano davanti alle telecamere come se stessero salvando il mondo. Ma la verità è che fare la guerra trampa parole nei talk show non costa nulla. Non cambia nulla. È solo autocompiacimento. Forse sarebbe ora di smettere di insultarlo e iniziare a capire perché ha vinto. E perché, con ogni probabilità, potrebbe vincere ancora. Perché quelli che votano Trump non sono alieni. Sono gli stessi che votarono Biden. E prima ancora Obama. Chi non capisce questo, chi continua a vivere in una bolla moralista e ideologica, è destinato a svegliarsi ogni quattro anni con l’incubo Trump nel letto. E a quel punto, l’unica bambolina voodoo che servirà… sarà la propria.
Manuale di sopravvivenza al Trampaverso
Manuale di sopravvivenza al Trampaverso ovvero: come smettere di preoccuparsi e imparare ad amare il dazio Tutti i giorni, da qualche parte nel mondo, un notiziario si sveglia e sa che dovrà correre dietro all’ultima sparata di Donald Trump. Che sia una proposta di bombardare un uragano, una stretta di mano con Kim Jong-un o un “truth” con più maiuscole che idee, the Donald detta l’agenda con la grazia di un ippopotamo su pattini a rotelle. E noi, come criceti in panico, a inseguirlo. Il fenomeno è noto: Trump parla, l’opinione pubblica risponde. Come? Con un misto di indignazione, sarcasmo, editoriali accorati e meme. Tonnellate di meme. Ma se filtriamo le infinite cianfrusaglie del suo pensiero, come si separa il grano dalla paccottiglia? E soprattutto: c’è grano? In realtà, sì. Il bello — o il tragico — è che i problemi che Trump elenca sono veri. L’economia americana sfiatata, il ceto medio disossato, il fentanyl che ha sostituito il sogno americano con un sonno eterno: tutto sacrosanto. Solo che poi arriva la cura, e pare scritta da uno sceneggiatore ubriaco di South Park. Il mondo brucia? “Dazi”. Le città piene di disperati? “Muri”. La guerra in Ucraina? “È persa, chiudiamo baracca e burattini e buonanotte al secchio”. Non serve Kissinger, basta un tweet e via andare. Il suo vice, J.D. Vance, ex enfant prodige della disperazione bianca, è trattato in Europa come un oggetto esotico, tipo maschera tribale o souvenir da safari politico. Ma ha scritto un libro che è diventato un film che è diventato una conferma: l’America che vota Trump non viene da Marte, viene dall’Ohio. E ci vive ancora. Solo che adesso ha una pistola, una connessione a Internet e un conto corrente svuotato dalla Walmart Economy. Nel frattempo, l’intellighenzia da talk show continua a lanciare insulti come coriandoli: “fascista”, “clown”, “pericolo per la democrazia”. Tutto giusto, ma del tutto inutile. Non costa nulla, fa sentire bene, non cambia niente. È come fare la guerra a un tornado con un ventaglio di seta: elegante, ma inefficace. La verità — ma che non si dica troppo forte, sennò salta la linea editoriale — è che Trump è la diagnosi con la calligrafia tremenda, non la cura. Fa domande sensate e risponde come uno che ha letto solo i titoli dei giornali (dopo averli comprati con i soldi degli altri). Ma è lì, ed è lì perché milioni di persone si sono stancate di essere compatite da chi li chiama “rednecks” tra un brunch e una lezione di etica postcoloniale. Morale della favola? Non serve una bambolina voodoo. Serve capire. E poi magari sì, anche un po’ di voodoo, ma con stile. In fondo, se vogliamo davvero opporci al trumpismo, dovremmo almeno riuscire a sembrare più seri di lui. Che non è difficile. Ma a volte pare impossibile.