Manuale di sopravvivenza al Trampaverso
ovvero: come smettere di preoccuparsi e imparare ad amare il dazio
Tutti i giorni, da qualche parte nel mondo, un notiziario si sveglia e sa che dovrà correre dietro all’ultima sparata di Donald Trump. Che sia una proposta di bombardare un uragano, una stretta di mano con Kim Jong-un o un “truth” con più maiuscole che idee, the Donald detta l’agenda con la grazia di un ippopotamo su pattini a rotelle. E noi, come criceti in panico, a inseguirlo.
Il fenomeno è noto: Trump parla, l’opinione pubblica risponde. Come? Con un misto di indignazione, sarcasmo, editoriali accorati e meme. Tonnellate di meme. Ma se filtriamo le infinite cianfrusaglie del suo pensiero, come si separa il grano dalla paccottiglia? E soprattutto: c’è grano?
In realtà, sì. Il bello — o il tragico — è che i problemi che Trump elenca sono veri. L’economia americana sfiatata, il ceto medio disossato, il fentanyl che ha sostituito il sogno americano con un sonno eterno: tutto sacrosanto. Solo che poi arriva la cura, e pare scritta da uno sceneggiatore ubriaco di South Park. Il mondo brucia? “Dazi”. Le città piene di disperati? “Muri”. La guerra in Ucraina? “È persa, chiudiamo baracca e burattini e buonanotte al secchio”. Non serve Kissinger, basta un tweet e via andare.
Il suo vice, J.D. Vance, ex enfant prodige della disperazione bianca, è trattato in Europa come un oggetto esotico, tipo maschera tribale o souvenir da safari politico. Ma ha scritto un libro che è diventato un film che è diventato una conferma: l’America che vota Trump non viene da Marte, viene dall’Ohio. E ci vive ancora. Solo che adesso ha una pistola, una connessione a Internet e un conto corrente svuotato dalla Walmart Economy.
Nel frattempo, l’intellighenzia da talk show continua a lanciare insulti come coriandoli: “fascista”, “clown”, “pericolo per la democrazia”. Tutto giusto, ma del tutto inutile. Non costa nulla, fa sentire bene, non cambia niente. È come fare la guerra a un tornado con un ventaglio di seta: elegante, ma inefficace.
La verità — ma che non si dica troppo forte, sennò salta la linea editoriale — è che Trump è la diagnosi con la calligrafia tremenda, non la cura. Fa domande sensate e risponde come uno che ha letto solo i titoli dei giornali (dopo averli comprati con i soldi degli altri). Ma è lì, ed è lì perché milioni di persone si sono stancate di essere compatite da chi li chiama “rednecks” tra un brunch e una lezione di etica postcoloniale.
Morale della favola? Non serve una bambolina voodoo. Serve capire. E poi magari sì, anche un po’ di voodoo, ma con stile. In fondo, se vogliamo davvero opporci al trumpismo, dovremmo almeno riuscire a sembrare più seri di lui. Che non è difficile. Ma a volte pare impossibile.