“Dazi, capitalisti e altre favole della buona notte”
di Luciano Di Gregorio – La Satira di Stato
C’era una volta il libero mercato. Correva felice per le praterie globalizzate, abbracciava tutti con catene di montaggio transcontinentali, mentre raccontava ai bambini del terzo mondo che un giorno, forse, avrebbero potuto lavorare per 10 centesimi l’ora anche loro. Poi arrivò Trump, l’orco protezionista, con la sua clava fatta di dazi e tweet, e picchiò forte sulle esportazioni cinesi gridando: “America first!” — ma la voce era quella del capitalismo in crisi, che non sapeva più a che santo votarsi dopo aver delocalizzato pure il buon senso.
Il capitalismo dell’austerità ha sostituito la crescita con la potatura. Un po’ come curare un albero malato segandogli il tronco. Così, mentre le élite fanno brunch tra i grafici del PIL, ai lavoratori resta la minestra — quella riscaldata dei sussidi dimezzati e dei contratti a tempo determinatissimo. Dicono che i dazi siano serviti a difendere l’industria americana: nel frattempo, l’unico settore che prospera è quello delle armi… e delle opinioni su YouTube.
La guerra commerciale USA-Cina è il remake malriuscito di Guerre Stellari, ma con meno effetti speciali e più consiglieri economici in completo grigio topo. Trump impone dazi, la Cina risponde con panda robot che fabbricano microchip mentre sorvegliano i cittadini con droni a forma di colibrì. E nel mezzo? Noi. Europei. A metà tra l’ipocrisia e la Merkel-nostalgia, osserviamo da bordo campo, con la socialdemocrazia che barcolla come un vecchio pugile suonato.
Il welfare è diventato un brutto ricordo, come il modem a 56k. Tagli su tagli fino a fare invidia ai saldi di gennaio. Ma tranquilli: ci dicono che “l’economia si riprenderà”. Sì, certo, come un pugile dopo il KO. E intanto, nei talk show, economisti da salotto pontificano su “resilienza” e “merito” mentre fuori la gente fa la fila al discount sperando in una promozione: una scatoletta gratis ogni tre CV inviati a vuoto.
Poi, come in ogni favola che si rispetti, arriva la morale: serve un nuovo modello. Una “economia della solidarietà”, dicono. Ma lo dicono piano, sottovoce, come se avessero paura che qualcuno li senta — tipo il Fondo Monetario, o Elon Musk. D’altronde, parlare di giustizia sociale oggi è come proporre un falò di SUV nel centro di Milano: radicale, poetico, inutile.
Eppure, tra le crepe del sistema, qualcosa si muove. Forse un brivido di coscienza, forse solo l’ennesimo specchio infranto. Ma una cosa è certa: il capitalismo non è morto. Sta solo cambiando costume. Come ogni illusionista, ha bisogno di crisi per sembrare ancora indispensabile. Ma il trucco si vede. E il pubblico comincia a fischiare.