C’è un silenzio che pesa più di mille dichiarazioni, ed è quello sull’eredità del fascismo. Un silenzio che si ostina a non diventare condanna. Anzi, che a volte si maschera da orgoglio genealogico, da ambiguità storica, da nostalgia involontaria ma ben coltivata.
E poi c’è un linguaggio che non dovrebbe esistere. Non nelle istituzioni. Non dalla voce della seconda carica dello Stato. Non da chi, nel 2024, dovrebbe rappresentare tutti i cittadini — anche quelli che scrivono romanzi, che fanno domande, che dissentono.
Il caso Scurati-La Russa non è una polemica culturale. Non è uno scontro tra narcisismi o sensibilità politiche diverse. È una questione di democrazia. Perché nel momento in cui il Presidente del Senato — figura istituzionale, garante, non polemista da talk show — denigra un cittadino che esercita il proprio diritto di parola, non sta solo attaccando quella persona. Sta delegittimando il ruolo che ricopre.
Quando La Russa risponde ad Antonio Scurati dicendo che “ha fatto fortuna con i libri sul fascismo”, non sta confutando una tesi. Sta scivolando nel sarcasmo da social, nello sberleffo da curva, in quella deriva populista che ha trasformato l’arena politica in uno stadio e le istituzioni in una bacheca Facebook.
Eppure, non si tratta solo di stile. Ma di contenuto. Perché in tutto questo, c’è una domanda che resta sospesa:
Il Presidente del Senato ha mai rinegato il fascismo?
Non è una provocazione. È una domanda legittima, civile, storica. E non rispondere — o peggio, rispondere insultando — è un problema.
Perché non si può stare nelle istituzioni e nei dopolavoro fascisti contemporaneamente.
Non si può dirigere il Senato della Repubblica Italiana e, allo stesso tempo, sorvolare sul fatto che il regime fascista abolì il Senato stesso, insieme a tutte le libertà civili e politiche.
Scurati ricorda che alla Scala, nel 1946, Arturo Toscanini inaugurò il teatro con un concerto simbolo della rinascita democratica, dopo vent’anni di buio. E ha ragione: la Scala non è solo un luogo musicale, ma una cattedrale della libertà riconquistata.
Che un uomo che non ha mai rifiutato apertamente il fascismo sieda lì in prima fila è un cortocircuito storico e morale.
Non è un attacco personale. È una constatazione. Un grido che parte dalla cultura per raggiungere la coscienza.
In questa vicenda, La Russa non è solo colpevole di avere polemizzato con un cittadino. È colpevole di aver utilizzato la sua posizione istituzionale per scagliarsi contro la libertà di espressione.
E questo, in una democrazia sana, è un abuso.
Perché lo Stato non discute con il cittadino. Lo Stato garantisce al cittadino il diritto di esprimersi.
Provate a immaginare il Presidente Mattarella che twitta:
“Lilli Gruber è una pessima giornalista.”
“Scurati? Scrive solo per vincere premi.”
Inimmaginabile, vero?
Ma nel tempo dei populismi, l’inimmaginabile diventa pratica quotidiana. Il ruolo istituzionale si fonde con il profilo privato. L’autorevolezza viene sostituita dall’aggressività. E chi dissente diventa “nemico”, non interlocutore.
È questa la vera emergenza democratica: una classe dirigente che non distingue più tra funzione e opinione. Tra potere e sfogo.
E che, anziché disinnescare il linguaggio dell’odio, lo alimenta.
Anziché proteggere la cultura, la colpisce.
Anziché garantire pluralismo, si sente minacciata da chi la pensa diversamente.
Antonio Scurati, con fermezza e lucidità, ha ricordato a tutti che la cultura non ha paura del potere, ma il potere ha sempre avuto paura della cultura.
E quando il potere insulta, denigra e svia, non fa altro che confermare di essere fragile, impaurito, e in fondo, abusivo.
Ecco perché, finché una figura istituzionale non rinega apertamente e definitivamente il fascismo, la sua presenza nei luoghi simbolo della democrazia e della cultura non sarà mai pienamente legittima.
Lo dice Scurati. Lo dice la storia.
E lo dirà anche la coscienza collettiva, se ancora siamo capaci di ascoltarla.