Il grande ritorno del muro… doganale!

Il grande ritorno del muro… doganale! Ovvero come salvare l’economia a colpi di dazio e nostalgia industriale C’era una volta un’America potente, fiera e produttiva, dove le fabbriche sputavano acciaio come draghi patriottici e i jeans si facevano con il sudore del Midwest, non con il risparmio asiatico. Poi arrivò la globalizzazione, con le sue offerte 3×2 e il temibile “Made in China”, e tutto cambiò: gli operai diventarono rider, le fabbriche si trasformarono in loft, e l’unica cosa prodotta in patria era l’indignazione. Ma ecco che dal cielo, in un tripudio di cravatte rosse e tweet impulsivi, scese lui: il Protettore Supremo del Prodotto Nazionale, l’uomo che avrebbe reso grande di nuovo non solo l’America, ma anche i dazi, i confini e i magazzini pieni di frigoriferi patriottici. Donald Trump. Il Robin Hood delle tariffe, che toglieva alle multinazionali per ridare… alle multinazionali con sede in Ohio. La strategia? Semplice. Imporre dazi sui prodotti stranieri per convincere le aziende a tornare in patria. Un po’ come aumentare il prezzo dei voli internazionali sperando che la gente torni a farsi le vacanze a Pomezia. Geniale. E chi se ne frega se poi l’iPhone costa come un rene — almeno il rene è americano. Il concetto chiave è chiaro: meglio un bullone yankee arrugginito che un dispositivo elettronico perfetto ma cinese. E se la signora Maria al mercatino dovrà spendere 150€ invece di 15 per un paio di jeans, che sia! Almeno quei jeans saranno imbevuti di libertà, bandiere e disoccupazione riconvertita. I critici, si sa, non capiscono il genio. Parlano di “rischi di guerra commerciale”, “inflazione”, “isolamento economico”. Ma sono gli stessi che pensano che il protezionismo sia roba del passato. In realtà, è il futuro! Basta rispolverarlo con un po’ di retorica, due slogan e qualche minaccia velata alla Germania. In conclusione, l’America protezionista è un po’ come un vecchio rockettaro che vuole rimettere insieme la band, ma senza sapere che il chitarrista ora vive in Vietnam, il batterista lavora per Amazon, e il bassista è un algoritmo. Ma non importa: con un bel dazio e tanta nostalgia, tutto tornerà come prima. O almeno ci divertiremo a guardare il tentativo.

Superdazzi, superdisastri e supercazzole: il mondo secondo chi comanda

🗞️  Superdazzi, superdisastri e supercazzole: il mondo secondo chi comanda Se nel passato i leader mondiali si sfidavano a colpi di trattati, ora preferiscono scambiarsi meme e insulti via social, come liceali ripetenti al secondo giro di terza media. E in questa nuova stagione geopolitica, il mondo sembra diventato un tavolo da Risiko senza dadi, dove ognuno si inventa le regole pur di conquistare la Kamčatka (o, in alternativa, un voto in più su Twitter). 🧨 Trump e il 104%: la matematica dell’Apocalisse Donald Trump, nel ruolo di contabile galattico con problemi di calcolatrice, ha imposto dazi alla Cina con una grazia pari a quella di un gorilla in un negozio di porcellane. Il 104% non è solo una cifra, è una dichiarazione d’intenti: se esagerare è un’arte, Trump ha appena vinto la Biennale del Protezionismo. Ma attenzione, perché dietro questa strategia c’è un’ideologia raffinata: colpire l’economia globale per salvare l’America dal logorio della vita moderna. Peccato che nel frattempo anche le borse si siano “salvate”… dal denaro. 🇪🇺 Il bazooka europeo: ovvero, quando ti svegli tardi e hai finito i proiettili L’Unione Europea risponde. E lo fa con un bazooka, parola che rassicura tutti, tranne gli economisti. Dopo mesi passati a redigere verbali e produrre infografiche, finalmente Bruxelles ha deciso di reagire: un mix tra diplomazia e guerra delle figurine, con Tajani nel ruolo del centravanti arretrato. E l’Italia? Tranquilli: Giorgia Meloni ha convocato una task force a Palazzo Chigi. Il che, nel linguaggio politico, significa che qualcuno ha stampato una cartellina e ha aperto un gruppo WhatsApp. 🇮🇹 25 miliardi di euro e un biglietto per Washington La Meloni volerà negli USA, probabilmente per spiegare a Trump che l’Italia è un alleato storico, purché i dazi non tocchino Grana Padano e prosecco. Intanto, annuncia un piano da 25 miliardi: sostegno alle imprese, incentivi e una generosa distribuzione di comunicati stampa. Nel frattempo Salvini, sempre pronto a occuparsi del nulla con grande passione, propone di coinvolgere i taxi nella geopolitica. Pare che i tassisti abbiano già risposto: “Se si tratta di scendere in piazza, solo con supplemento notturno”. 🧠 La Casa Bianca come un reality show: Musk vs Navarro Negli USA la Casa Bianca pare diventata un incrocio tra The Apprentice e Lo Zoo di 105. Navarro accusa Musk di essere un “assemblatore di batterie cinesi”, Musk replica definendolo “più stupido di un sacco di mattoni”. In Italia, qualcuno avrebbe già proposto di candidarli entrambi alle prossime Europee: uno a destra, l’altro a destra della destra. ⚰️ Il lato oscuro della cronaca In mezzo a questo circo geopolitico, l’Italia si risveglia con l’eco di una tragedia vera: l’omicidio del biologo Alessandro Coatti in Colombia. In un mondo dove la politica urla, la cronaca vera ci ricorda in silenzio che esistono storie che non si misurano in sondaggi, ma in dignità e dolore. 🔚 Conclusione: Superdazzi, supercani sciolti e supercazzole Viviamo in tempi dove le scelte più complesse vengono comunicate con emoji e maiuscole, e dove l’arte di governare è stata sostituita da quella di tenere il punto davanti a un microfono. Ma c’è speranza: la satira sopravvive, come l’unico modo civile per gridare: “Il re è nudo, e ha anche un pessimo stylist”.  

Lo scudo, il dazio e la supercazzola strategica

Lo scudo, il dazio e la supercazzola strategica di Luciano Di Gregorio Nel cuore pulsante di Palazzo Chigi, tra un selfie istituzionale e una task force da salotto, è stato finalmente partorito il miracolo della politica economica italiana: lo scudo antidazzi. Non un’arma, non una barriera. Ma una specie di mantello dell’invisibilità fiscale, cucito con gli avanzi del PNRR e qualche buona intenzione in saldo. Mentre Trump gioca a Risiko con le economie globali e impone dazi con la delicatezza di un toro in un duty free, l’Italia risponde come sa fare meglio: convocando vertici, rinviando decisioni e cercando Wi-Fi per caricare i comunicati stampa. Meloni chiama, le imprese ascoltano (forse) La Premier, con piglio risoluto e sguardo da Annunciazione, ha dichiarato: “Oggi saranno le imprese ad essere ascoltate.” E da domani, forse, qualcuno risponderà anche. L’idea è semplice: creare un dialogo. Ma con chi? Con le stesse imprese che, nel frattempo, stanno cercando di capire se il “dazio” sia una tassa o un personaggio di “Don Matteo”. Nel frattempo, il governo garantisce protezione. Ma non ai prezzi, né all’export. Piuttosto alla propria immagine, con una campagna diplomatica che prevede una missione a Washington, probabilmente per dire agli americani: “Scusateci, siamo italiani.” Il grande ritorno del “Ministro del Rinvio” A sorreggere questa architettura mistica c’è il vicepremier Tajani, che riesce nel difficile compito di sembrare sempre d’accordo con tutti, anche con quelli che si contraddicono tra loro. Salvini, invece, colto da improvvisa ispirazione, ha colto l’occasione per proporre un collegamento tra i dazi e… i taxi. Del resto, per il segretario leghista ogni problema può essere risolto con un numero: 49 (milioni) oppure 35 (euro a corsa). Non importa se l’argomento era la politica doganale internazionale. L’Europa gioca a “Trova l’alleato” Nel frattempo, l’Unione Europea, dal canto suo, appare come un condominio senza amministratore, dove ognuno abbassa le tapparelle al passaggio del postino doganale. Von der Leyen propone di “rafforzare la resilienza”. Tradotto: più parole, meno contenuto. Il riarmo economico si chiama “Prontezza 2030” – che suona come un nuovo profumo di Jean Paul Gaultier ma senza fragranza. Una corsa agli armamenti da attuare con calma olimpica, che in sintesi significa: quando i buoi saranno scappati, chiuderemo anche il recinto… ma con stile. Conclusione (ma anche no) In questo teatro dell’assurdo, tra scudi immaginari, dazi reali e alleanze di cartapesta, l’Italia si scopre ancora una volta esperta in alchimia politica: trasformare la confusione in retorica, e la retorica in comunicato.

Trump lancia bombe, Meloni prende tempo, Salvini mette like

Trump lancia bombe, Meloni prende tempo, Salvini mette like di Luciano Di Gregorio Donald Trump si sveglia una mattina, si guarda allo specchio e twitta: “Non siate deboli, non siate stupidi.” Poi dichiara guerra economica al mondo, tranne che alla Russia. E tutti pensano: “Ecco, è tornato il Trump che ci mancava. Quello che brucia trilioni con un post e poi dice che era uno scherzo.” Il problema non è lui. Il problema è chi, in Europa, lo prende sul serio. Peggio: chi vorrebbe tanto imitarlo ma senza avere né i muscoli né i satelliti. E così inizia l’ennesimo lunedì di passione per i mercati. Wall Street va giù, Milano la segue come una groupie disperata, e nel mezzo ci sono loro: i leader europei che fingono di sapere cosa fare. Trump, l’arte del caos (con copyright) Trump non è un pazzo. Trump è un pazzo organizzato. Ha una dottrina economica primitiva come una clava, ma funziona: spaventa, confonde, colpisce. Fa finta di negoziare, poi mena. Fa finta di cedere, poi mena più forte. Chi non capisce è stupido. Chi lo imita senza avere un dollaro stampabile è peggio: è italiano. Giorgia, il doppio passo dell’equilibrista col megafono spento E Meloni? Ah, Giorgia. Ha costruito una carriera sulle ruspe di Salvini, sull’euroscetticismo da bar sport e sul “prima gli italiani”. Poi, una volta a Palazzo Chigi, ha scoperto che i decreti si firmano con le forbici in mano, perché prima tagli, poi prometti, poi neghi. Ora si ritrova in trappola: Allora che fa? Convoca una “task force”. Che in gergo politico vuol dire: “Non ho idea di cosa fare, quindi metto intorno al tavolo quelli che ne sanno meno di me, così mi sento meno sola.” Nel frattempo parla poco, e quando lo fa, è per dire che “l’allarmismo va evitato”. Come dire: sta bruciando il salotto, ma evitiamo di gridare al fuoco. Salvini, il solito: ruspa nel cuore, tastiera in mano E il Capitano? Lui non aspetta altro. Da settimane gira col navigatore puntato su “Ministero dell’Interno – corsia preferenziale”, ma ora spera che il caos globale gli regali lo sprint. Ha detto che i dazi di Trump “sono un’opportunità”. E certo: se la recessione picchia, può ricominciare a parlare di migranti. Se la Meloni vacilla, lui torna a dire “lo avevo detto”. Non guida nulla, ma aspetta che qualcun altro sbagli il parcheggio. L’Europa? Presa in ostaggio… da se stessa Mentre a Washington si spara a colpi di tweet e dazi, Bruxelles risponde con i comunicati stampa. Von der Leyen dice che bisogna “preparare la guerra per avere la pace”. Un aforisma che neanche un Baci Perugina sovranista oserebbe. Si parla di “contro-dazi selettivi”, come se la risposta a un pugno fosse una carezza con tono fermo. Il grande spettacolo del niente Quello a cui stiamo assistendo non è un confronto politico. È una fiction in cui ogni attore recita male il suo ruolo. Trump fa la parte del despota illuminato dal marketing. Meloni finge di essere la donna forte che riflette (in silenzio). Salvini fa la cheerleader della guerra economica, ma a bordo campo. L’Europa scrive rapporti mentre l’economia crolla. E noi? Noi paghiamo il biglietto, seduti in prima fila, a guardare la commedia tragicomica del “chi comanda davvero?” Nel frattempo i prezzi salgono, i salari no, e i governi fanno finta che tutto sia normale. Morale (amara) Il mondo brucia. Trump ride. Meloni tace. Salvini twitta. L’unico dazio che non salta mai è quello che paghiamo noi, in silenzio.

La pace fa paura ai vigliacchi

La pace fa paura ai vigliacchi di Luciano Di Gregorio C’è una verità che nessuno osa pronunciare: la pace fa paura. Fa paura ai governi, ai generali, ai giornalisti embedded, ai venditori di armi e agli opinionisti che si sono scoperti strateghe militari con l’abbonamento al Corriere. La pace fa paura perché è una smentita. E le smentite, si sa, costano carriere, reputazioni e contratti da consulenza. Questa guerra non doveva finire. Doveva diventare struttura. Rumore di fondo. Una colonna sonora di droni e sanzioni per accompagnare le giornate dei cittadini occidentali, mentre nel backstage si costruiva un nuovo ordine mondiale, con la NATO come regista e l’Europa come controfigura. E invece, come in ogni tragedia greca, arriva il personaggio imprevedibile: Donald Trump. Uno che non ha bisogno di risultare coerente, ma solo inevitabile. Entra in scena, dice che la guerra è persa, che l’Ucraina è stata usata, che i valori occidentali sono etichette con il prezzo sopra. E il cast istituzionale va in panico, come attori incapaci davanti a un improvvisatore geniale. Il grande inganno Abbiamo vissuto tre anni dentro una favola bellica scritta da sceneggiatori falliti: Putin era Hitler, Zelensky Churchill, la NATO la Croce Rossa. Il risultato? Mezzo milione di morti, un paese devastato, un’Europa più povera, e una Russia ancora lì. Ci avevano detto: “Putin è finito”. “La Russia fallirà”. “Le sanzioni funzionano”. “È una guerra per la democrazia”. “Non daremo armi offensive”. “Non useremo bombe a grappolo”. “Non manderemo truppe”. Ogni frase è stata smentita dai fatti. E ogni smentita è stata coperta da una nuova bugia. Chi ha cercato di dire la verità è stato etichettato: putiniano, pacifinto, traditore, disertore morale. Perché in un’epoca di guerra totale, anche il pensiero è un campo minato. Ma ora che la narrazione si sfalda, che resta? Restano i rottami morali di chi ha tifato per il conflitto, con la foga dei miserabili che scambiano la guerra per riscatto. Restano i bilanci: umani, economici, politici. E restano i cittadini, da soli, con le tasche vuote e le scorte di aspirine nelle “borse della resilienza”. L’Europa senza dignità L’Unione Europea, in questa storia, si è giocata tutto: autorità, credibilità, senso. Ha trasformato la parola “pace” in un imbarazzo diplomatico. Ha delegato agli americani ogni decisione strategica, e ora piagnucola perché Trump tratta con Putin. Ma cosa pretendevamo? Che i due imperi si scannassero per farci contenti? Che gli ucraini morissero in eterno per la nostra coerenza narrativa? L’unica coerenza europea è stata l’obbedienza. Anche al ridicolo. Siamo stati capaci di approvare un riarmo da 800 miliardi chiamandolo “prontezza 2030”. Cioè: ci armiamo oggi per essere pronti tra cinque anni. Come dire a un ladro: entra pure, fra un lustro ti arrestiamo. I nuovi Tafazzi I veri responsabili del disastro non sono i falchi americani, né i russi, né i trumpiani. Sono i tafazzi nostrani: quella classe politica, mediatica e intellettuale che ha spinto per la guerra senza sapere perché, che ha fatto il tifo per le armi con lo stesso entusiasmo con cui prima si entusiasmava per i vaccini, i selfie e gli NFT. Sono quelli che ti dicevano: “La pace si fa solo dopo la vittoria.” Come se nella storia le guerre fossero finite tutte con un trofeo e una stretta di mano. La pace si fa quando si può, non quando è comoda. E ora, davanti all’ipotesi di un negoziato vero, questi signori impazziscono. Perché se la pace arriva, la loro narrativa crolla. E con essa, la loro carriera. Per questo si inventano nuove minacce: Putin vuole Lisbona, la NATO è scomparsa, la Germania è un pericolo, la Russia è immortale, ma anche allo stremo. Non hanno più logica. Hanno solo paura. La guerra è finita. Il teatrino no. Questa guerra è finita. Non ufficialmente, ma nella sostanza. È finita perché il suo scopo era altro: ridisegnare gli equilibri globali, drenare risorse europee, testare la lealtà atlantica. L’Ucraina è stata il pretesto. Il campo da gioco. Non il fine. La pace ora si può fare. Forse non sarà “giusta”, forse non sarà “pura”. Ma sarà reale. E ogni giorno che passa, ogni morto in più, è colpa di chi non la vuole. E chi non la vuole, oggi, è il vero nemico.

Benvenuti nella Terza Guerra Fredda. Ma stavolta non sappiamo nemmeno da che parte stare”

“Benvenuti nella Terza Guerra Fredda. Ma stavolta non sappiamo nemmeno da che parte stare” di Luciano Di Gregorio La settimana è stata, per usare un eufemismo, irrecuperabile. Non nel senso che ci sia stato un evento troppo grande da raccontare, ma perché ne sono accaduti troppi, troppo in fretta, troppo insieme. Una settimana in cui Trump ha dichiarato guerra al mondo intero, tranne alla Russia, e l’Europa – come un’anziana contessa decaduta – si è ritrovata nuda davanti allo specchio, balbettando “valori comuni” con la cipria ancora in mano. Cosa è successo, davvero? È successo che l’asse atlantico si è rotto. Non si è incrinato. Non si è “teso”. Si è proprio spaccato. E nessuno, men che meno noi europei, sembra averne colto il suono. Siamo ancora lì a discutere se sia il caso di rispondere con controdazi, con parole, con scrollatine di testa. Nel frattempo, gli Stati Uniti guidati da Trump hanno dichiarato il resto del mondo un problema. La Russia no. Putin no. Lui resta l’unico uomo con cui il nuovo imperatore americano non vuole litigare. Gli altri, tutti, sono sospetti. Soprattutto gli europei, visti come “parassiti ben vestiti”, da sedurre quando serve e umiliare sempre. Il pasticcio dei dazi: la guerra più stupida del mondo Trump ha rispolverato la logica dei dazi con la delicatezza di un elefante bendato in una cristalleria. Ma non sono nemmeno “dazi” nel senso tecnico del termine. No, ha reinventato un calcolo opaco, fumoso, che nessun economista prende sul serio, basato sul bilanciamento della bilancia commerciale come se fosse una bilancia da cucina. Il suo Segretario del Tesoro, uno che sembra uscito da un romanzo distopico – tale Scott Pescett – dice: “50 paesi vogliono trattare con noi”. Che vuol dire? Che si apre una stagione di trattati bilaterali dove non si parlerà solo di economia, ma anche di migrazioni, confini, armi e influenza geopolitica. Ma il punto è un altro: questa manovra serve solo a incassare. Gli USA sono gravemente indebitati. Il rischio per il dollaro è reale. I dati sono questi: un cittadino americano è mediamente tre volte più indebitato di un italiano. Eppure, guadagna di più. Il sogno americano è diventato un mutuo sulla disperazione. Il capolavoro: colpire i propri cittadini La grande bugia è che questi dazi “proteggano” l’americano medio. È il contrario. Se metti un dazio sul vino italiano e quel vino sale del 20%, chi lo paga? Il cittadino americano. Non lo compra più, o lo compra a un prezzo gonfiato. Lo stesso vale per tutto: meccanica, agroalimentare, moda, farmaceutica. Alla fine, o il produttore straniero svende, o il consumatore americano sanguina. Tutto questo per cosa? Perché Trump vuole rilocalizzare le fabbriche. Ma per rilocalizzarle ci vogliono anni, soldi, e – piccolo dettaglio – lavoratori. Che non ci sono. Gli USA hanno la piena occupazione, e hanno anche chiuso le frontiere. È una guerra economica senza esercito. L’Europa dei sottomessi (e dei ridicoli) E noi? Noi abbiamo risposto, come al solito, con un convegno. Con qualche dichiarazione un po’ stanca, un po’ retorica. Alcuni, in Italia, ancora ci spiegano che “i dazi sono una grande opportunità”. Tipo il terremoto per le imprese edili. “Grazie signor Trump”, diranno presto. E faremo anche un film, come quello su Margaret Thatcher, ma con meno ironia e più bollette impazzite. Ma quale Europa dovrebbe rispondere? Quella di Salvini? Di Orban? Di Macron? La verità è che non esiste un’Europa politica, ma solo un patchwork di interessi, slogan e alleanze occasionali. Siamo come i membri superstiti di una boyband degli anni ’90: ci guardiamo, sorridiamo, ma non possiamo più cantare in armonia. Una rottura sentimentale Ma il danno vero, quello più profondo, non è economico. È emotivo. È simbolico. È culturale. L’America che ci ha cresciuti – con i suoi film, i suoi libri, la sua musica, i suoi diritti – non esiste più. È un paese che chiude il Ministero dell’Istruzione, cancella i programmi sanitari, taglia la ricerca. È un paese che ti dà del “parassita” se credi nella cooperazione. E nessun dazio misurerà mai questo disincanto. Questa non è più la solita guerra tra mercati. È una rottura affettiva, valoriale. È l’Occidente che smette di riconoscersi. Gli ex alleati si guardano in cagnesco. E da fuori – da Mosca, da Pechino – ci osservano e ridono. Perché quello che dovevano temere di più era che restassimo uniti. Ora siamo un piatto di porcellana frantumato. Sovranismo: l’ideologia del più stupido E il colpo finale? L’alleanza dei sovranisti. Come se un sovranista potesse allearsi con un altro. È una barzelletta che diventa tragedia. Il sovranismo è per definizione un’ideologia egoista, da “mio prima di tuo”. Ma in un mondo così, comanda solo il più grosso. Se ti allei con Trump, poi Trump ti calpesta. Perché per lui tu sei un satellite, non un alleato. Lo diceva Troisi: “C’è sempre qualcuno più meridionale di te.” Parafrasando: c’è sempre un sovranista più grosso. E quello comanda. Gli altri obbediscono. O si illudono di contare. La scena finale Trump, Putin, e (presto) Xi Jinping si stanno sedendo a un nuovo tavolo globale. Non per discutere. Ma per spartire. E noi non siamo nemmeno tra gli invitati. L’Europa è assente, l’Italia è smarrita, e l’Occidente si è trasformato in una nostalgia. Siamo entrati nella Terza Guerra Fredda, ma non abbiamo più le idee, né i valori, né i leader per combatterla. Abbiamo talk show, mercati nervosi e un’alleanza a pezzi. La nuova Yalta è cominciata. E questa volta, non c’è posto per noi.

Trump, Musk & Co. S.p.A.: privatizzare l’America, un pezzo alla volta

Trump, Musk & Co. S.p.A.: privatizzare l’America, un pezzo alla volta di Luciano Di Gregorio C’è un progetto silenzioso, ma non troppo, che sta avanzando in America sotto gli occhi di tutti, tra tweet deliranti, jet privati e partite a Risiko con la democrazia. È il progetto di una nuova oligarchia tecno-populista che ha il volto di Donald Trump, la retorica di Elon Musk e il portafogli di chi non ha mai preso un autobus in vita sua. Il piano è semplice e brutale: svuotare lo Stato, tagliare le tasse ai miliardari, spacciare ogni misura regressiva come “libertà” e chiamare “patriottismo” la svendita del bene pubblico. Trump lo ha fatto una volta, ora vuole farlo ancora, con una determinazione da vendicatore sociale al contrario: uno che non combatte per i poveri, ma contro di loro. “America First”, versione liquidazione Nel mirino ci sono i servizi essenziali, i diritti civili e le conquiste del Novecento: chiudere gli uffici della previdenza sociale, licenziare lavoratori pubblici, sventrare Medicaid, eliminare protezioni per i consumatori. Un piano che non risana nulla, ma spolpa. È il vecchio sogno della destra più radicale: rendere il governo così piccolo “da poterlo annegare nella vasca da bagno”, come diceva Grover Norquist, ideologo del neoliberismo estremo. A guidare questa crociata ci sono uomini che odiano lo Stato, finché non c’è da ricevere un sussidio, una deregulation o un taglio fiscale. E che nel frattempo pretendono di essere anche paladini del popolo. Un popolo, però, sempre più sfrattato dai suoi stessi diritti. Il paradosso del miliardario ribelle Trump e Musk sono il nuovo volto di un populismo tossico: miliardari che si fingono outsider, leader che cavalcano il malcontento creato dalle stesse élite economiche cui appartengono. Ma con una differenza sostanziale rispetto ai plutocrati del passato: questi non si accontentano di comprare i politici – vogliono essere i politici. Vogliono scrivere le regole mentre le riscrivono a loro vantaggio. Elon Musk gioca a fare il rivoluzionario su X (ex Twitter), mentre taglia posti di lavoro, attacca i sindacati e flirta con le peggiori destre del pianeta. Trump, intanto, promette di prorogare i famigerati tagli fiscali della sua prima presidenza – quelli che hanno arricchito Wall Street e lasciato a secco Main Street. Una nazione in saldo Quello che sta accadendo è la trasformazione dell’America in un club privato per ultraricchi, dove la cittadinanza è un abbonamento premium e il resto è rumore di fondo. Se protesti, sei woke. Se reclami giustizia, sei comunista. Se ti ammali e non puoi pagare, è colpa tua. E non è un caso che alla marcia contro questo disegno abbiano aderito oltre 150 gruppi, da Greenpeace alla Human Rights Campaign, dal SEIU ai movimenti per la Palestina o l’Ucraina. Perché il filo rosso è uno solo: la democrazia non può essere un privilegio. O la difendiamo adesso, o resteranno solo le briciole. E nemmeno quelle sono garantite. Il punto di non ritorno Questa non è più politica: è una guerra di logoramento contro l’idea stessa di bene comune. E chi pensa che “tanto è l’America, si riprenderanno”, dovrebbe ricordare che anche Roma cadeva mentre i senatori brindavano. La democrazia non muore sempre con un colpo di Stato. A volte si spegne a colpi di decreto, tweet e spot elettorali. Trump, Musk e i loro compari non vogliono solo vincere. Vogliono riscrivere le regole del gioco. E poi mangiarsi il tabellone.  

Trump, il Risiko dei populisti e l’Europa dei sonnambuli

Trump, il Risiko dei populisti e l’Europa dei sonnambuli di Luciano Di Gregorio C’è un errore che la destra europea ha fatto, e continua a fare, con ostinazione quasi commovente: pensare che Donald Trump sia “uno dei nostri”. Che sia semplicemente un altro populista chiassoso, uno che urla promesse sapendo di non doverle mantenere. Un professionista dell’ambiguità, come tanti altri. Ma Trump non è ambiguo. È qualcosa di peggio: è coerente. E questo, per certi conservatori europei, è stato un brutto risveglio. Quelli che nella vita non sono riusciti a far funzionare un’azienda spesso si riciclano in politica. Trump è il prototipo. Fallimenti a ripetizione, bancarotte ben documentate, reality show come copertura mediatica, e poi la Casa Bianca come piano B. Ma il punto non è lui. Il punto è che lo votano. Petrolini lo diceva meglio di tutti: “Io non ce l’ho con te, ce l’ho con quello vicino a te che è un diputato.” Il problema non è il buffone, ma chi ride. Trump non gioca a scacchi. Gioca a Risiko. Con una visione del mondo in cui ognuno torna nel proprio recinto: gli americani mangiano americano, i cinesi cinese, gli europei… vabbè, si arrangino. Lui la chiama “America First”. In realtà è “America Alone”, ed è l’unica strategia che potrebbe davvero impoverire tutti. Un disegno infantile, che però ha bisogno di essere attuato. E magari ci riesce pure. Perché la verità è questa: Trump non è negoziale. Fa finta di esserlo, poi ti presenta il conto. Prima minaccia, poi tratta. Ma solo se hai qualcosa da offrirgli. Se no, sei fuori dal tavolo. Europa inclusa. E noi, europei, continuiamo a balbettare, a oscillare, a non decidere. Ogni volta che lui alza la voce, noi ci mettiamo a parlare di “dialogo”. Una parola nobile, certo. Ma anche una parola che, nella bocca di chi non sa opporsi, suona come una resa preventiva. La Cina osserva e ringrazia. Se gli americani diventano occlusi, dice, allora venite da noi. E se l’alternativa alla democrazia americana è l’abbraccio velenoso dell’autoritarismo cinese, allora l’Europa dovrebbe svegliarsi. Perché il tempo dell’illusione è finito. Non possiamo più permetterci di vivere di promesse, di dichiarazioni, di “valori” scritti nei trattati e mai difesi con i denti. Trump ha una potenza che non viene dal pensiero, ma dal fatto che può fare ciò che vuole. E questo è devastante. Ma ancora più devastante è la codardia di chi dovrebbe fermarlo e invece spera che “passi la nottata”. L’Europa non deve dialogare con Trump. Deve dirgli no. E deve farlo prima che sia troppo tardi. Perché la storia non aspetta. E i sonnambuli finiscono sempre contro il muro.

Il mito suicida dell’autarchia

Dazi: la farsa protezionista che ci sta dissanguando In un mondo dove l’apparenza conta più della sostanza, i dazi sono diventati il nuovo giocattolo dei populisti economici: venduti come salvezza nazionale, sono in realtà la pistola fumante puntata contro i consumatori stessi. Sventolati come scudo contro il “nemico straniero”, si rivelano invece un boomerang che colpisce dritto al portafoglio delle famiglie, prima ancora che le imprese. Promesse vuote e propaganda d’accatto Dietro slogan come “riportiamo il lavoro a casa” si cela una verità scomoda: i dazi non proteggono nessuno, se non l’ego di politici che giocano a fare gli strateghi globali. A ogni proclama sul rilancio dell’economia interna corrisponde un dato impietoso: prezzi che salgono, inflazione che galoppa e salari che arrancano. Altro che rinascita industriale — siamo nel mezzo di una lenta eutanasia commerciale. Il mito suicida dell’autarchia Il protezionismo moderno è la versione economica del coprifuoco: chiude, isola, soffoca. In nome di una presunta sovranità commerciale, si erigono muri che non fermano nessuno, se non le merci che servono davvero. Le grandi potenze si barricano in se stesse, dimenticando una regola antica quanto ovvia: se smettiamo di scambiarci beni, inizieremo presto a scambiarci minacce. Le élite si arricchiscono, il popolo paga Chi guadagna dai dazi? Non certo il cittadino medio. Le grandi aziende sanno come aggirare il sistema, delocalizzare quando serve e scaricare i costi su chi non ha voce. Chi ci rimette? Il piccolo imprenditore, lo studente, la famiglia con reddito fisso. E intanto ci raccontano che “è per il nostro bene”. Una bugia che ha il sapore acre del cinismo. Accordi? Solo quando conviene a loro I trattati commerciali, un tempo fondamento di cooperazione, sono ora ridotti a moneta di scambio per ottenere vantaggi tattici. Si parla di “negoziazione”, ma è solo teatro: maschere di cortesia per nascondere ricatti economici. Altro che diplomazia: è bullismo di stato. Conclusione: la fine della recita Abbiamo bisogno di chiamare le cose col loro nome: i dazi non sono una strategia, sono un fallimento annunciato. Non costruiscono il futuro, lo ostacolano. Non difendono l’economia, la sabotano. Continuare su questa strada significa prepararsi a una guerra commerciale in piena regola, dove l’unico vincitore è il caos — e a pagare il conto saremo, come sempre, noi.

Marine Le Pen con 4 anni Di Carcere, Nominata Impresentabile

Un gioco perverso sul tema dei finanziamenti ai collaboratori è qualcosa che da molti anni scuote la politica francese. Nel caso specifico, Marine Le Pen, insieme ad altre otto persone, è stata condannata per appropriazione indebita di fondi destinati ai collaboratori per il finanziamento di dettagli. In Francia, negli ultimi anni, ci sono stati altri casi simili. Ad esempio, Sylvie Goulart, vice politica, non è diventata commissario europeo a causa di accuse di abuso di questo tipo. Nel 2020, la corsa di Emmanuel Macron è stata agevolata dal fatto che François Fillon ricevette un’accusa pesante relativa a finanziamenti che sarebbero stati dirottati dalla moglie.Il problema principale riguarda l’uso illecito dei fondi destinati ai collaboratori, che in realtà venivano utilizzati per il partito. Questo solleva due questioni fondamentali: la prima è l’ineleggibilità di Marine Le Pen, che ha suscitato reazioni di sostegno da parte di figure come Orbán, Putin e altri populisti e antieuropeisti. Dall’altra parte, c’è un elemento politico e culturale, poiché molti considerano Marine Le Pen pericolosa per l’Europa. Il processo ha avuto buoni motivi per andare avanti, ma c’è chi spera che la Repubblica possa essere sconfitta non per via giudiziaria, ma per via politica.Le reazioni della destra italiana, in particolare della Lega, sono state immediate. La Lega, membro dello stesso gruppo al Parlamento europeo dei Patrioti, ha definito la sentenza una dichiarazione di guerra da parte dell’Europa. Matteo Salvini, in un tweet, ha visto la sentenza come un attacco orchestrato dai magistrati per far cadere Marine Le Pen. Tuttavia, esiste un 34-37% di elettori francesi che votano per il Fronte Nazionale, una percentuale significativa che non sarà facilmente ignorata.La condanna di Marine Le Pen, che sancisce la sua ineleggibilità, non lascerà a casa questi elettori. Essi sono il risultato di una politica lepenista che è stata seminata con successo. È importante interrogarsi sulle conseguenze che questa sentenza avrà su questa fascia dell’elettorato francese, che potrebbe reagire in modi inaspettati. Non è chiaro se sarà Jordan Bardella, considerato un delfino politico e un giovane uomo, a prendere il posto di Le Pen.Negli anni scorsi, c’è stata una crescita del movimento antilepenista, ma la sentenza attuale potrebbe non annullare o ridimensionare un voto che è sempre più ampio. L’interrogativo è chiaro: come reagirà l’elettorato francese a questa situazione? La risposta a questa domanda potrebbe avere implicazioni significative per il futuro politico della Francia e dell’Europa.