Il 25 aprile fa ancora paura. Meglio vietarlo, sa di libertà C’è una frase in quel manifesto del 25 aprile che racconta l’Italia di oggi meglio di mille editoriali: “Lo vieterei… ma sa troppo di libertà.” Già, il problema è proprio quello. Ottant’anni dopo la Liberazione, la libertà è ancora vista come un lusso, una concessione, una cosa da somministrare a dosi controllate — come si fa con un medicinale che può dare effetti collaterali. Mentre il paese si divide tra chi porta il fiore sulla tomba di un Papa e chi porta la bandiera della Resistenza nelle piazze, una parte del potere politico invita alla “sobrietà”. Non per rispetto, sia chiaro, ma per fastidio. Perché il 25 aprile ricorda che la libertà nasce dalla disobbedienza, non dalla disciplina. Che i partigiani non chiedevano permesso. Che l’antifascismo non era “conformità”, ma rischio, scelta, rottura. Così, oggi, c’è chi vorrebbe mettere i tappi alle orecchie quando si canta Bella Ciao e chi storce il naso di fronte a un pugno fatto di pane. Eppure è tutto lì: la libertà è semplice come il pane, necessaria come l’aria, ma fa paura a chi sogna un popolo muto, docile, rassegnato. La vignetta del vecchietto incatenato davanti al manifesto è una fotografia crudele. Parla di un’Italia che ha barattato la memoria con il comfort, la dignità con il disinteresse, la storia con la propaganda. Un’Italia che ha paura di guardare il suo passato perché rischierebbe di vedere il suo presente per quello che è: più vicino alla catena che al pane. Vietarlo, il 25 aprile? Magari. Così almeno si ammetterebbe che la libertà è ancora un problema irrisolto.
La pace fa paura ai vigliacchi
La pace fa paura ai vigliacchi di Luciano Di Gregorio C’è una verità che nessuno osa pronunciare: la pace fa paura. Fa paura ai governi, ai generali, ai giornalisti embedded, ai venditori di armi e agli opinionisti che si sono scoperti strateghe militari con l’abbonamento al Corriere. La pace fa paura perché è una smentita. E le smentite, si sa, costano carriere, reputazioni e contratti da consulenza. Questa guerra non doveva finire. Doveva diventare struttura. Rumore di fondo. Una colonna sonora di droni e sanzioni per accompagnare le giornate dei cittadini occidentali, mentre nel backstage si costruiva un nuovo ordine mondiale, con la NATO come regista e l’Europa come controfigura. E invece, come in ogni tragedia greca, arriva il personaggio imprevedibile: Donald Trump. Uno che non ha bisogno di risultare coerente, ma solo inevitabile. Entra in scena, dice che la guerra è persa, che l’Ucraina è stata usata, che i valori occidentali sono etichette con il prezzo sopra. E il cast istituzionale va in panico, come attori incapaci davanti a un improvvisatore geniale. Il grande inganno Abbiamo vissuto tre anni dentro una favola bellica scritta da sceneggiatori falliti: Putin era Hitler, Zelensky Churchill, la NATO la Croce Rossa. Il risultato? Mezzo milione di morti, un paese devastato, un’Europa più povera, e una Russia ancora lì. Ci avevano detto: “Putin è finito”. “La Russia fallirà”. “Le sanzioni funzionano”. “È una guerra per la democrazia”. “Non daremo armi offensive”. “Non useremo bombe a grappolo”. “Non manderemo truppe”. Ogni frase è stata smentita dai fatti. E ogni smentita è stata coperta da una nuova bugia. Chi ha cercato di dire la verità è stato etichettato: putiniano, pacifinto, traditore, disertore morale. Perché in un’epoca di guerra totale, anche il pensiero è un campo minato. Ma ora che la narrazione si sfalda, che resta? Restano i rottami morali di chi ha tifato per il conflitto, con la foga dei miserabili che scambiano la guerra per riscatto. Restano i bilanci: umani, economici, politici. E restano i cittadini, da soli, con le tasche vuote e le scorte di aspirine nelle “borse della resilienza”. L’Europa senza dignità L’Unione Europea, in questa storia, si è giocata tutto: autorità, credibilità, senso. Ha trasformato la parola “pace” in un imbarazzo diplomatico. Ha delegato agli americani ogni decisione strategica, e ora piagnucola perché Trump tratta con Putin. Ma cosa pretendevamo? Che i due imperi si scannassero per farci contenti? Che gli ucraini morissero in eterno per la nostra coerenza narrativa? L’unica coerenza europea è stata l’obbedienza. Anche al ridicolo. Siamo stati capaci di approvare un riarmo da 800 miliardi chiamandolo “prontezza 2030”. Cioè: ci armiamo oggi per essere pronti tra cinque anni. Come dire a un ladro: entra pure, fra un lustro ti arrestiamo. I nuovi Tafazzi I veri responsabili del disastro non sono i falchi americani, né i russi, né i trumpiani. Sono i tafazzi nostrani: quella classe politica, mediatica e intellettuale che ha spinto per la guerra senza sapere perché, che ha fatto il tifo per le armi con lo stesso entusiasmo con cui prima si entusiasmava per i vaccini, i selfie e gli NFT. Sono quelli che ti dicevano: “La pace si fa solo dopo la vittoria.” Come se nella storia le guerre fossero finite tutte con un trofeo e una stretta di mano. La pace si fa quando si può, non quando è comoda. E ora, davanti all’ipotesi di un negoziato vero, questi signori impazziscono. Perché se la pace arriva, la loro narrativa crolla. E con essa, la loro carriera. Per questo si inventano nuove minacce: Putin vuole Lisbona, la NATO è scomparsa, la Germania è un pericolo, la Russia è immortale, ma anche allo stremo. Non hanno più logica. Hanno solo paura. La guerra è finita. Il teatrino no. Questa guerra è finita. Non ufficialmente, ma nella sostanza. È finita perché il suo scopo era altro: ridisegnare gli equilibri globali, drenare risorse europee, testare la lealtà atlantica. L’Ucraina è stata il pretesto. Il campo da gioco. Non il fine. La pace ora si può fare. Forse non sarà “giusta”, forse non sarà “pura”. Ma sarà reale. E ogni giorno che passa, ogni morto in più, è colpa di chi non la vuole. E chi non la vuole, oggi, è il vero nemico.
Io E L’Articolo sull’Attacco Ai Giornalisti
L’articolo esplora la crescente tensione tra politica e informazione, evidenziando come la degenerazione dei rapporti di potere stia influenzando la società, sia in Italia che negli Stati Uniti. Inizia con un confronto tra l’Italia e l’America, sottolineando come quest’ultima stia vivendo una fase di “cattivismo” istituzionalizzato, con un uso distorto della narrazione politica per manipolare l’opinione pubblica. Un esempio emblematico è l’apparizione della ministra americana per la sicurezza, Christie Noem, vestita come Lara Croft in un video girato in un centro di confinamento antiterrorismo a Salvador. Questo gesto è visto come una spettacolarizzazione della sicurezza, trasmettendo un messaggio di falsa protezione che ricorda le dinamiche mafiose.L’articolo prosegue analizzando come la politica americana stia utilizzando immagini e narrazioni per disumanizzare i migranti, trasformandoli in nemici pubblici attraverso l’uso di tecnologie come l’intelligenza artificiale per creare fumetti a partire da foto reali. Questo processo di disumanizzazione è pericoloso, poiché normalizza l’orrore e lo presenta come accettabile, specialmente quando è il governo stesso a promuoverlo.In Italia, sebbene non si sia ancora raggiunto il livello di manipolazione visiva degli Stati Uniti, si osserva una crescente tendenza all’uso di un linguaggio aggressivo e denigratorio nei confronti dei giornalisti. Il caso Donzelli, un politico di spicco del partito di maggioranza, è emblematico di questa deriva. Donzelli ha attaccato verbalmente il giornalista Giacomo Salvini per aver scritto un libro critico su Fratelli d’Italia, dimostrando una mancanza di rispetto per il ruolo dei media e per l’importanza della critica giornalistica.L’articolo sottolinea come questo linguaggio aggressivo sia ormai sdoganato anche nelle istituzioni, con episodi di volgarità persino nei discorsi parlamentari. La mancanza di rispetto per il ruolo dei giornalisti è preoccupante, soprattutto quando proviene da figure di governo che dovrebbero mantenere un certo decoro istituzionale.Inoltre, si evidenzia come i giornalisti siano sempre più spesso bersaglio di attacchi e sorveglianza, sia in Italia che negli Stati Uniti. Il ministro Mantovano ha confermato che i giornalisti italiani sono stati spiati, un fatto che rappresenta un grave attacco alla libertà di stampa e all’informazione. Questo clima di ostilità verso i media è pericoloso, poiché mina la capacità dei giornalisti di svolgere il loro ruolo di controllo e critica nei confronti del potere.L’articolo conclude con una riflessione sulla necessità di preservare la libertà di stampa e di mantenere un dialogo rispettoso tra politica e informazione. In un’epoca in cui la narrazione politica è sempre più manipolata, è fondamentale che i cittadini sviluppino una capacità critica per discernere la verità e resistere alle manipolazioni. La democrazia si basa su un’informazione libera e indipendente, e la società deve vigilare affinché questa rimanga intatta
Corrado Formigli Intervista Michele Serra
Manifestare per l’Europa dei diritti, soprattutto. Direi che, in qualche modo, c’erano anche tanti manifesti di Ventotene. No, mi sembra di vedere che Roberto Benigni, ieri sera, abbia rimesso un po’ di cose a posto. Che dice Michele? Beh, Roberto Benigni ha fatto l’artista, che è la cosa che gli riesce meglio, e ha tenuto una lunga “protezione civile”. Incredibile il fatto che quasi 5 milioni di persone siano rimaste ad ascoltare un monologo non semplice, in certi passaggi anche abbastanza ostico. Quindi vuol dire che le persone hanno bisogno di sentirsi raccontare un po’ di cose. E soprattutto ha rimesso in ordine alcune sequenze storiche. Ha detto che il Manifesto di Ventotene è la matrice, il seme fondamentale dell’idea federalista europea. In quegli anni, i principi fondanti dell’Europa sono stati l’antifascismo e l’antinazionalismo, e quindi è del tutto scontato che la Presidente del Consiglio non si riconosca nel Manifesto di Ventotene. Mi stupirebbe il contrario. Ho trovato un po’ eccessiva l’emotività della reazione di parte dell’opposizione, ma bisognava semplicemente prenderne atto e dirle: “Presidente, non ci stupisce affatto che lei non sia favorevole al federalismo europeo e ai valori fondamentali dell’Europa, che sono gli stessi della Costituzione italiana”. Quindi dici che c’è una connessione tra il fatto che lei non si dichiari antifascista e il suo rifiuto del Manifesto di Ventotene? Io ho sempre pensato che non abbia senso chiederle di dichiararsi antifascista, perché semplicemente non lo è. Bisogna essere lucidi rispetto a una situazione che è sicuramente preoccupante, come dice Renata Colorni, ma questa è la realtà. Però c’è una questione, Michele: una cosa è dire “A me non piace il Manifesto di Ventotene, sono per i nazionalismi”, altra cosa è farne una battaglia politica e portare questa discussione alla Camera dei Deputati, fuori contesto. Perché lo ha fatto, secondo te? Forse per buttarla in caciara e nascondere, in mezzo alle polemiche, il fatto che la sua maggioranza di governo non abbia una politica europea chiara. Un terzo è con Salvini, che è filo-putiniano—ce lo ricordiamo tutti con il colbacco. Un terzo è con Forza Italia, che si dichiara europeista. Il restante terzo è sospeso tra le esigenze di Trump e quelle dell’Europa, che al momento non coincidono affatto. È un pasticcio, ma bisogna riconoscere che la destra ha un’abilità straordinaria nel nascondere le proprie divisioni, mentre la sinistra ha un’abilità straordinaria nel mostrarle. Senti, veniamo alla piazza. È una piazza che mi ha colpito molto e che è stata attaccata sia da destra che da sinistra. Secondo alcuni, era una piazza “guerrafondaia”, piena di gente che chiedeva bombe e missili. Secondo altri, era una piazza timida, che non ha colto l’occasione per insorgere contro Trump e Putin. In genere, quando prendi critiche da entrambe le parti, vuol dire che hai fatto qualcosa di giusto, no? Sì, però ci sono alcune questioni di cui vale la pena parlare. Le polemiche sul Comune di Roma, ad esempio, sono stravaganti. Non solo il Comune ha finanziato la manifestazione, ma l’ha proprio indetta e organizzata, insieme a 12 sindaci di grandi città italiane. In piazza c’erano 400 sindaci. Era una manifestazione dei sindaci italiani in favore di un’Europa dei cittadini. Non c’era un solo simbolo di partito, né ha parlato un solo esponente politico sul palco. L’altra polemica, quella della “piazza pagata da John Elkann”, è un’offesa gratuita. E la questione della “piazza guerrafondaia”? È evidente che il dibattito su guerra e pace sia aperto. In piazza c’erano sicuramente posizioni diverse, ma l’unico vero difetto di quella manifestazione è che è arrivata con trent’anni di ritardo. Perché dico trent’anni? Perché già durante la guerra nei Balcani ci si chiedeva: dov’è l’Europa? Perché non interviene per fermare il massacro etnico? Alex Langer, uno dei padri del pacifismo europeo, diceva: “A Sarajevo l’Europa o rinasce o muore”. Alla fine, l’Europa è morta. E Langer, pochi mesi dopo, si è tolto la vita, sopraffatto dal disonore della democrazia europea. La piazza romana è ripartita esattamente da lì, con trent’anni di ritardo. Se crediamo nei valori europei—giustizia, pace, Stato sociale, libertà, diritti—dobbiamo dar loro una forma concreta. Michele, veniamo al nodo centrale: l’Europa discute di inviare armi all’Ucraina, mentre Putin e Trump negoziano una pace che dovrà soddisfare Putin e Trump, ma non si sa quanto gli ucraini. È anacronistico mandare armi proprio ora? Io la vedo così: forse è anacronistico mandarle adesso, ma è stato decisivo farlo fino ad ora, altrimenti l’Ucraina sarebbe già stata sottomessa a Putin. Quanto al piano di difesa europeo, mi riconosco nella posizione di Schlein: no al riarmo nazionale, sì a un esercito europeo. Gli italiani sono stati sempre piuttosto tiepidi sul tema delle armi all’Ucraina. Forse il pacifismo italiano ed europeo è più che altro un pacifismo “di comodo”, un pacifismo egoista? Ci sono tre tipi di pacifismo: 1. Un pacifismo etico e attivo, con radici culturali profonde, sia cattoliche che laiche. 2. Un pacifismo di comodo, che si limita a dire: “Che fastidio questi ucraini, se si arrendessero torneremmo tutti alla normalità”. 3. Un pacifismo bellicoso e minoritario, che brucia bandiere europee e diffonde calunnie. Senti, parliamo di politica interna: Meloni e Salvini sono divisi, Schlein e Conte sono divisi. Gli italiani cosa devono pensare di fronte a una destra e una sinistra spaccate al loro interno? La destra ha un ostacolo strutturale a essere europeista, perché ha una forte componente nazionalista. La sinistra è alle prese con un dilemma: l’idea di riarmare gli Stati nazionali non è logica né popolare. Mario Draghi, in Parlamento, ha detto una cosa interessante: se i Paesi europei fossero uniti, avrebbero potuto trattare sul prezzo dell’energia, ottenendo condizioni migliori. Questo vale per tutto: dagli approvvigionamenti alle spese militari. Chiudiamo con una piccola sorpresa: nel 2016, Giorgia Meloni scriveva sui social che Renzi, Hollande e Merkel avevano meno idee chiare sull’Europa rispetto ai firmatari del Manifesto di Ventotene, detenuti in carcere nel 1941. Le posizioni cambiano, a seconda che si stia all’opposizione o al governo. Io, nel 2016, non mi ricordo
Il Pensiero Di Altiero. Spinelli, Ispiratore dell’unità dell’Europa Sul Manfifesto DI Ventotene
Quando la crisi della civiltà europea sfociò nella nuova conflagrazione mondiale un piccolo gruppo di confinati a Ventotene, provenienti da partiti e tendenze diverse, si trovarono ad aver raggiunto, negli anni trascorsi nelle galere e nei confini le stesse conclusioni riguardo ai problemi fondamentali della nostra civiltà. Superando la sorveglianza della polizia fascista essi strinsero rapporti con altri combattenti per la libertà che lavoravano in Italia o che si trovavano confinati in altri luoghi del regno, onde stabilire con loro una comune azione politica. Poiché in Italia lo sdegno provocato dalla bestiale e rovinosa politica del governo fascista induceva un numero di persone sempre maggiore a riprendere in modo intenso la propaganda e la lotta politica, questo gruppo ritenne opportuno di redigere un progetto di manifesto che servisse ad indicare la linea politica lungo la quale si sarebbe, secondo loro, dovuta riorganizzare la vita politica italiana ed europea. Questo manifesto venne scritto nel giugno del 1941 e di nuovo redatto nell’agosto dello stesso anno in una seconda forma nella quale non vi furono variazioni di sostanza, ma solo una migliore disposizione della materia e quelle modifiche dettate dalla necessità di tener conto dell’ingresso dell’U.R.S.S. in guerra. Il manifesto non poté avere, sotto il regime fascista, una grande diffusione. Diede tuttavia luogo a discussioni, a polemiche e a studi che presentano tuttora un certo interesse. Le circostanze anormali in cui tutto questo materiale fu prodotto, l’evolversi degli avvenimenti la cui precisa valutazione non poteva essere data dal confino, han fatto si che oggi si possono notare varie lacune, ed alcune parti possono anche considerarsi superate. Sarebbe forse bene riscrivere tutto da capo in modo da presentare cose completamente aggiornate. Ciò implicherebbe però un lavoro di mesi. Ma la vita politica italiana è stata ridotta dal fascismo come un arido deserto, e chi può dare un qualsiasi contributo che l’aiuti a rifiorire non deve perdere un minuto di tempo, specialmente nell’attuale tragica situazione. Meglio perciò pubblicare questi scritti quali sono, affidando agli studi successivi il compito di correggere e di aggiornare, meglio anche correre il rischio di dire qualcosa di sbagliato ma indicare agli Italiani smarriti ed incerti, almeno nelle sue grandi linee, la via da seguire, anziché tacere per un eccessivo desiderio di adeguatezza alla realtà attuale. Pubblichiamo perciò ora il testo del manifesto nella sua seconda redazione e lo faremo seguire da due opuscoli e da una raccolta di lettere polemiche scritte nelle stesse condizioni. Occorre che il lettore tenga conto che non si tratta del manifesto di un movimento che già esistesse nel momento in cui venne redatto, ma di un appello di un lavoro che è andato successivamente sempre meglio precisandosi e sempre meglio si preciserà a mano a mano che proseguiremo verso il grande obiettivo dell’Italia libera nell’Europa libera e unita. Noi pensiamo che le idee fondamentali del manifesto conservino ancor oggi il loro valore. La salvezza della civiltà europea esige ancor sempre un profondo rinnovamento sociale inquadrato in una unità federale europea, e la realizzazione di questo ideale non può essere perseguita che mediante decise azioni le quali non esitino timidamente dinnanzi a ciò che pretende di avere diritto ad esistere solo perché è sempre esistito. Ciononostante quando il manifesto fu scritto i partiti antifascisti non avevano ancora preso in Italia forme organizzate, ed i suoi autori prospettarono in conseguenza la necessità di costituire un partito federalista che si proponesse di mobilitare direttamente le masse popolari propugnando un programma abbastanza completo di riforme sociali in diretta relazione coll’impostazione federalista. Da allora è accaduto che le forze popolari e progressiste italiane si sono orientate intorno a determinati partiti che avevano differenti origini e svariate impostazioni politiche. sarebbe un errore, in questa situazione, proporsi di entrare in concorrenza per costituire ancora un altro partito. Il compito dei federalisti nelle attuali circostanze della nostra vita politica italiana deve essere invece quello di indicare ai partiti progressisti, i quali attirano su di sé le simpatie popolari, ma sono ancora più ricchi di fervore che di idee e propositi precisi, quali debbano effettivamente essere questi propositi e come ci si debba concretamente preparare a risolvere i problemi politici attuali. Non si tratta più di formare un partito federalista., ma di aiutare i partiti progressisti italiani a diventare federalisti. Molte caratteristiche che, nell’ultimo paragrafo del manifesto – La situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti – erano indicate come caratteristiche del partito federalista, vanno oggi intese come consiglio dato genericamente a quello o a quei partiti progressisti italiani che si sentono capaci di rinnovamento e di maturazione interna. Un convegno di federalisti, tenuto in queste primissime settimane seguite alla caduta del fascismo è giunto concordemente alla conclusione che occorre costituire non un partito, ma un movimento. Volendo precisare il campo e le forme in cui il movimento federalista europeo deve svolgere oggi la sua propaganda il convegno ha approvato la seguente mozione: «Il movimento federalista, pur lasciando ogni suo membro libero di studiare in modo particolare e preciso i vari problemi politici e sociali che si pongono sul piano europeo, ed anzi promuovendo tali studi, non deve ancora impegnarsi in formulazioni programmatiche troppo precise riguardo alla futura federazione europea e ai singoli problemi ad essa connessi, poiché troppi dati sono ancora fluidi ed incerti sia nel campo nazionale che in quello internazionale. Rimane tuttavia fermo che un atteggiamento federalista esclude qualsiasi forma di totalitarismo ed esclude pure le forme di unità sia egemoniche sia apparentemente federaliste, ma in realtà poste sotto il ferreo controllo di organismi comunque totalitari. Con questa premessa il movimento federalista si trova con tutte le forze e tendenze progressiste che si rivelino favorevoli alla creazione della federazione europea, da quelle comuniste a quelle strettamente liberali, e non si pronuncia astrattamente per una federazione in cui sia stabilita a priori la dose di collettivismo e di capitalismo, di democrazia e di autorità in essa ammissibili. Noi siamo infatti convinti che la struttura federalistica costituisce la condizione necessaria per lo sviluppo di una vita politica libera. Solo in funzione di una tale rivoluzione i particolari
Il discorso di Michele Serra: “Siamo in tanti perché siamo un popolo. Diversi ma europei”
Siamo in tanti. Evviva! Siamo in tanti perché siamo popolo. Popolo è una parola che negli ultimi anni è stata sottratta alla democrazia e alla gentilezza. E invece è la più democratica delle parole. Siamo in tanti e siamo diversi. Perché una piazza europea non può che essere una piazza di persone che, su parecchie cose, non la pensano allo stesso modo. Ognuno di voi potrebbe avere accanto qualcuno che vota per un altro partito. O non vota affatto. Che crede in un altro dio, oppure in nessun dio. Che ama la pace, ma pensa di difenderla in modi differenti. In un mondo che sembra in frantumi, una piazza che unisce persone e idee diverse è uno scandalo. Questo scandalo ha un nome. Si chiama democrazia. Non è molto di moda, nel mondo, la democrazia. Il mondo è pieno di gente in galera perché non la pensa come il capotribù. Di bambine che non possono andare a scuola perché sono bambine. Di oppositori assassinati o avvelenati, di libri messi al bando, di idee schiacciate. Di omosessuali e transessuali perseguitati per legge. Di schiavitù sul lavoro e nelle famiglie. Di vite sottoposte al dominio del padrone e all’arbitrio del padre. Qui, no. Perché siamo in Europa. E per quanti errori abbiamo fatto, e per quanta ingiustizia e indifferenza ancora opprimano i più deboli, da ottant’anni a questa parte stiamo provando a vivere in libertà e in pace. E le persone che scappano dalla guerra, dall’oppressione e dalla fame per cercare rifugio qui da noi lo fanno perché per loro vivere in pace, e vivere liberi, e avere la pancia piena, è una grande novità. E non una pigra abitudine, come ci siamo rassegnati a credere noi europei, viziati da ottant’anni di pace e di libertà. Diamoci una mossa, perché altrimenti rischiamo di credere che la sola bandiera che ci resta da sventolare sia la carta di credito Quella è la bandiera di Trump e del suo governo di miliardari. Gente convinta che ricostruire Gaza rasa al suolo sia una questione immobiliare, non un’urgenza umana. Poveri loro, che con tutti quei quattrini non possono comperare niente che non sia altri quattrini. I nostri veri nemici siamo noi stessi quando dimentichiamo la nostra fortuna. Per quelli che attraversano il Mediterraneo per venire qui, e per quelli che sventolano questa bandiera a Est, l’Europa non è un concetto astratto. È la salvezza. Ricordiamocelo, quando li ricacciamo in mare. E ricordiamocelo, quando pensiamo che la resistenza degli ucraini sia solo una scocciatura che ci impedisce di riposare tranquilli. Questa bandiera ha sventolato poco, dalle nostre parti. È appesa negli uffici e davanti ai palazzi, fin qui è stata un simbolo freddo, che non scalda i cuori. Se ci è venuto in mente di portarla in piazza è perché vogliamo sentirci europei non per trattato, non per un vincolo burocratico. Ma perché crediamo sul serio, ostinatamente, perfino a dispetto della realtà, alla libertà e alla pace, che sono le due madri della costruzione europea Sappiamo tutti qual è il problema, qui e oggi. Ci sono, anche in questa piazza, idee diverse su come l’Europa deve proteggere se stessa, avere cura dei suoi valori e della sua gente. Il problema è che tutti vogliamo la pace, ma non può esistere pace senza libertà. Nessuno può sentirsi in pace, se è oppresso, invaso, sottomesso. E tutti vogliamo la libertà, ma non esiste libertà se non c’è la pace. Nessuno è libero, sotto le bombe o con un fucile puntato addosso. Niente sospende la libertà degli esseri umani quanto la guerra. La guerra non è solo il contrario della pace, è anche il contrario della libertà. Abbiamo queste due parole preziose tra le mani, pace e libertà, ma non sappiamo bene come usarle senza che cadano a terra, e si rompano, e ci restino solo i cocci. Questa piazza non ha risposte, ma ha ben chiare le domande. Questa piazza è un punto interrogativo di colore blu. Noi siamo la domanda che consegniamo a noi stessi, a chi ci governa, a chi ci rappresenta nel Parlamento italiano e in quello europeo. Chi si illude di avere le risposte in tasca, e sa come si fa la guerra, e sa come si fa la pace, oggi non è qui. Ai politici presenti in piazza, che ringrazio di cuore, e a quelli che non ci sono, che rispetto, ho solo un piccolo rilievo da muovere. Siete troppo intelligenti. Cercate, per favore, di essere un poco più stupidi, come questa piazza che non ha fatto calcoli, che non sa esattamente che cosa si deve fare, ma cerca di farlo lo stesso. Cercate, per favore, di parlarvi e addirittura di ascoltarvi. Noi siamo qui, oggi, perché la nostra solitudine e le nostre speranze ci impedivano di restarcene in casa. Ci hanno spinto a uscire di casa, e a ritrovarci qui. Insieme. La ripeto perché è la più europea delle parole: insieme. Forse stasera ci sentiremo un poco meno confusi. Forse, ancora più confusi. Di sicuro, ci sentiremo un po’ meno soli. A questo dovrebbe servire la politica: a sentirsi meno soli. Grazie di cuore a tutti.