Trump: “Che giornata!” Ma tranquilli, ne stanno arrivando altre. E sono sempre più grandi. Come i dazi. “Che giornata, ma sono in arrivo altre grandi giornate.” Così ha twittato — pardon, truthtato — Donald Trump sul suo social preferito, Truth Social, il luogo dove la verità si prende una vacanza e si mette in costume arancione. L’annuncio arriva dopo la brillante idea di una tregua commerciale di 90 giorni con tanto di eccezione: dazi al 125% per la Cina. Per chi non fosse pratico di matematica trumpiana, funziona così: si chiama “tregua”, ma si spara lo stesso — basta mirare meglio. La Casa Bianca, intanto, ha rilasciato una nota ufficiale: “Il Presidente sta bene, mangia regolarmente, parla da solo solo nei corridoi stretti, e crede fermamente che le giornate si possano misurare in altezza, come i grattacieli.” La scienza conferma: “Una giornata trumpiana può pesare fino a 2,5 tonnellate di propaganda” Secondo il prestigioso Istituto Americano delle Cose Che Sembrano Vero Ma Non Lo Sono™, una “grande giornata” in linguaggio trumpese è quella in cui: In arrivo nuove giornate: alcuni americani chiedono asilo politico… a TikTok Mentre i mercati barcollano e il concetto di “accordo” si piega come una cravatta Made in China, il popolo americano si prepara a vivere queste “grandi giornate” con il fiato sospeso e il portafoglio vuoto. Un nuovo movimento sta nascendo sui social: “Keep America Confused Again”. Si vocifera che anche il calendario abbia chiesto un cambio di contratto: “Non voglio più essere settimanale, voglio diventare stagionale. Così salto direttamente a novembre.”
Rivoluzione a Bruxelles: il burro d’arachidi non passerà!
Bruxelles, 2025 – La guerra commerciale è cominciata. Ma dimenticatevi carri armati e droni: qui si combatte a colpi di jeans, whisky e tosaerba. L’Europa, stanca di farsi schiacciare dal peso del Made in USA, ha deciso di rispondere. E lo ha fatto colpendoli dove fa più male: tra l’Harley Davidson e il burro d’arachidi. Sì, avete capito bene. L’UE ha preso il casco integrale della diplomazia, ci ha messo dentro una bottiglia di Champagne (non tassata, tranquilli, c’è l’esenzione bipartisan) e ha accelerato verso la rappresaglia commerciale. La geopolitica spiegata in tre snack americani Il documento europeo, partorito con più litigi che una riunione di condominio, elenca con precisione chirurgica le armi di distruzione doganale: In breve, si tratta della prima guerra della storia combattuta con snack e lavatrici. E attenzione: nessun tosaerba sarà risparmiato. Barbon escluso: quando il whisky si salva per meriti diplomatici In mezzo alla lista delle vittime commerciali, spunta l’unico superstite eccellente: il barbon (leggasi: bourbon). Grazie all’intervento congiunto di Italia, Francia e Irlanda – anche noti come l’Asse degli Alcolici – il prezioso liquido ambrato è stato graziato. Il motivo ufficiale? “Tutelare la tradizione dei distillati.” Il motivo ufficioso? “Non possiamo affrontare un vertice UE sobri.” Harley Davidson, simbolo da colpire. Perché l’UE ama le biciclette Punire le moto americane è un gesto forte, quasi freudiano. Da una parte, c’è l’UE, con le sue piste ciclabili, le sue e-bike, e i suoi cittadini che bevono acqua frizzante e leggono Etienne Balibar. Dall’altra, l’americano medio: giubbotto di pelle, moto da 800 cavalli, aria di libertà e scappamento libero. Un rapporto impossibile. E dunque la vendetta è servita: dazi dal 15 aprile, e rombo ridotto al silenzio. Il dialogo secondo Bruxelles: bazooka doganale in una mano, trattato nell’altra La Commissione ha chiarito: “Non vogliamo una guerra commerciale, vogliamo solo che l’altra parte capisca che siamo seri.” Frase che tradotta in linguaggio non-diplomatico significa: “Parliamo pure, ma intanto vi tassiamo i pop corn come fossero diamanti.” Prossime mosse: dazi sul ketchup? Sul baseball? Sull’accento texano? Fonti non confermate parlano già della seconda ondata di sanzioni. Nel mirino: Conclusioni: la guerra dei dazi è la nuova guerra fredda. Ma con meno ideologia e più marketing L’Europa lancia segnali. Washington risponde con meme e minacce. Intanto i consumatori guardano i prezzi del succo d’arancia e si chiedono: “Ma non potevano litigare su qualcosa di meno zuccherato?” Nel frattempo, un nuovo equilibrio globale si profila all’orizzonte: – Le Harley diventano oggetti di lusso, – Il Kentucky si prepara al Proibizionismo 2.0, – E i cittadini europei iniziano a scoprire che sì, anche l’acqua di cocco può andare bene col pane tostato. Prossimamente: Titolo: “Rivoluzione a Bruxelles: il burro d’arachidi non passerà!” di Luciano Tariffa, inviato speciale con passaporto e sarcasmo Bruxelles, 2025 – La guerra commerciale è cominciata. Ma dimenticatevi carri armati e droni: qui si combatte a colpi di jeans, whisky e tosaerba. L’Europa, stanca di farsi schiacciare dal peso del Made in USA, ha deciso di rispondere. E lo ha fatto colpendoli dove fa più male: tra l’Harley Davidson e il burro d’arachidi. Sì, avete capito bene. L’UE ha preso il casco integrale della diplomazia, ci ha messo dentro una bottiglia di Champagne (non tassata, tranquilli, c’è l’esenzione bipartisan) e ha accelerato verso la rappresaglia commerciale. La geopolitica spiegata in tre snack americani Il documento europeo, partorito con più litigi che una riunione di condominio, elenca con precisione chirurgica le armi di distruzione doganale: In breve, si tratta della prima guerra della storia combattuta con snack e lavatrici. E attenzione: nessun tosaerba sarà risparmiato. Barbon escluso: quando il whisky si salva per meriti diplomatici In mezzo alla lista delle vittime commerciali, spunta l’unico superstite eccellente: il barbon (leggasi: bourbon). Grazie all’intervento congiunto di Italia, Francia e Irlanda – anche noti come l’Asse degli Alcolici – il prezioso liquido ambrato è stato graziato. Il motivo ufficiale? “Tutelare la tradizione dei distillati.” Il motivo ufficioso? “Non possiamo affrontare un vertice UE sobri.” Harley Davidson, simbolo da colpire. Perché l’UE ama le biciclette Punire le moto americane è un gesto forte, quasi freudiano. Da una parte, c’è l’UE, con le sue piste ciclabili, le sue e-bike, e i suoi cittadini che bevono acqua frizzante e leggono Etienne Balibar. Dall’altra, l’americano medio: giubbotto di pelle, moto da 800 cavalli, aria di libertà e scappamento libero. Un rapporto impossibile. E dunque la vendetta è servita: dazi dal 15 aprile, e rombo ridotto al silenzio. Il dialogo secondo Bruxelles: bazooka doganale in una mano, trattato nell’altra La Commissione ha chiarito: “Non vogliamo una guerra commerciale, vogliamo solo che l’altra parte capisca che siamo seri.” Frase che tradotta in linguaggio non-diplomatico significa: “Parliamo pure, ma intanto vi tassiamo i pop corn come fossero diamanti.” Prossime mosse: dazi sul ketchup? Sul baseball? Sull’accento texano? Fonti non confermate parlano già della seconda ondata di sanzioni. Nel mirino: Conclusioni: la guerra dei dazi è la nuova guerra fredda. Ma con meno ideologia e più marketing L’Europa lancia segnali. Washington risponde con meme e minacce. Intanto i consumatori guardano i prezzi del succo d’arancia e si chiedono: “Ma non potevano litigare su qualcosa di meno zuccherato?” Nel frattempo, un nuovo equilibrio globale si profila all’orizzonte: – Le Harley diventano oggetti di lusso, – Il Kentucky si prepara al Proibizionismo 2.0, – E i cittadini europei iniziano a scoprire che sì, anche l’acqua di cocco può andare bene col pane tostato. Prossimamente:
Dazi, dogane e dignità perdute: anatomia di un mondo che si fa la guerra con le bollette doganali
Dazi, dogane e dignità perdute: anatomia di un mondo che si fa la guerra con le bollette doganali Un tempo la globalizzazione era un sogno: merci che viaggiavano, culture che si contaminavano, e cellulari assemblati in sei paesi diversi prima di finire a terra nel bagno di casa. Poi qualcuno ha deciso che condividere è comunismo, e che ogni Stato deve tornare a produrre da solo i propri bulloni, possibilmente a mano e con orgoglio patriottico. Così sono tornati loro: i dazi, quei simpatici balzelli da Ottocento, oggi rilanciati in versione deluxe da leader politici con il pollice sul Twitter e l’indice sul bazooka commerciale. Il dazio come terapia d’urto per economie stressate (dagli stessi che le guidano) I dazi sono diventati come la tachipirina dei governi: non importa quale sia il problema – disoccupazione, bilancia commerciale, mal di pancia elettorale – si risponde sempre con un “mettiamoci sopra un dazio e vediamo se passa”. Peccato che non passi. Anzi, spesso peggiora. Appena alzi un dazio, qualcuno lo vede, rilancia, e inizia il valzer delle vendette fiscali. Risultato? Una “guerra commerciale” dove tutti combattono per proteggere i propri lavoratori, finendo per licenziarli comunque. Globalizzazione: la grande amica tradita (ma solo quando fa comodo) Abbiamo voluto delocalizzare tutto: le fabbriche, le competenze, perfino le responsabilità politiche. Abbiamo chiuso un occhio sullo sfruttamento in nome del risparmio, abbiamo applaudito al libero scambio mentre compravamo vestiti a cinque euro cuciti da mani troppo piccole per votare. E adesso? Ora che la Cina è diventata un colosso e il Bangladesh ci manda newsletter economiche, si grida allo scandalo: “ci rubano il lavoro!” Come se fossimo stati derubati, e non complici. Il reshoring e il mito del “fare tutto in casa” (con materiali cinesi) Il ritorno della produzione in patria, chiamato “reshoring” da chi vuole farlo sembrare una strategia e non una pezza, è la nuova grande idea. Peccato che, per fare “tutto da soli”, servano ancora le materie prime degli altri, la tecnologia dei vicini e la manodopera che si lamenta poco. Così si produce in Italia con componenti vietnamiti, si esporta in America con packaging giapponese e si dichiara “orgoglio nazionale” perché la scatola è blu. Nel frattempo, i Paesi in via di sviluppo, che si erano finalmente aggrappati alla scialuppa della manifattura globale, vengono lasciati al largo: “Ci dispiace, abbiamo deciso di salvarci da soli. Buona fortuna con il microcredito.” L’Europa come capro espiatorio di professione Nell’arena della colpa internazionale, l’Europa è la zia che sbaglia sempre regalo. Troppo ecologista, troppo equa, troppo… europea. Viene accusata di aver imposto regole ambientali, difeso i diritti umani, e altre sciocchezze simili. Insomma: non è abbastanza cinica per sopravvivere nel mercato globale dominato da chi grida “America First” o “Cina Uber Alles”. E così, mentre Bruxelles cerca compromessi e salvaguardie, Washington e Pechino si scambiano testate… commerciali. La globalizzazione è morta. Evviva la globalizzazione (con altri fornitori) Oggi tutti dicono che la globalizzazione è finita. Ma non è vero. È semplicemente cambiato l’algoritmo: si globalizza dove conviene, si chiude dove serve un titolo di giornale, si colpisce a rotazione come in un risiko stanco. Il problema non è “il mondo aperto”. Il problema è la classe dirigente che gioca al risiko col mondo chiuso in uno zaino a stelle e strisce. Conclusione: un mondo in guerra con se stesso, ma in giacca e cravatta Il vero rischio di questa nuova stagione protezionista non è solo la recessione. È la normalizzazione del cinismo economico, dove ogni mossa è giustificata da “interesse nazionale” e ogni errore da “colpa degli altri”. Il rischio è che, cercando di salvare il proprio giardino, bruciamo la foresta. Ma tranquilli: se tutto va a rotoli, basterà un altro dazio. O una conferenza stampa. O un tweet.
LA LOGICA DEL BUFFONE CON IL BAZOOKA
LA LOGICA DEL BUFFONE CON IL BAZOOKA Nel grande circo della politica contemporanea, la nuova frontiera del consenso non passa più per i programmi elettorali, ma per il volume con cui urli “Buffone!” in diretta. Più forte lo dici, più sei uno statista. Più insulti, più sei virale. Addio dibattiti, benvenuti ceffoni retorici in mondovisione. E così, da uno studio televisivo o da un podio elettorale, si lancia la nuova stagione del reality show “Chi vuol essere il più incazzato del reame?” con un’entrata in scena da Oscar: “Buffone di pessima qualità.” Una frase così elegante che dovrebbe essere incisa su ogni banco del Parlamento, accanto a “vietato pensare”. Il nuovo codice della politica: grida, minaccia, vinci C’è chi un tempo parlava di moralità pubblica, equilibrio istituzionale, costruzione di consenso. Oggi, il nuovo manuale Cencelli dell’aggressività ci spiega che la politica è diventata una cosa semplice: Zelensky? “Una comparsa con la mimetica.” Meloni? “Si imbarazza” ma poi sorride. Tutti recitano. Tranne chi insulta, che finalmente dice le cose come stanno. E in fondo, è questo che il popolo vuole: un gladiatore. Meglio se arrabbiato, sfacciato e possibilmente in camicia sbottonata fino allo sterno. Scuola Roy Cohn: picchia per primo, anche se hai torto A ispirare la retorica globale, ovviamente, l’immortale filosofia di Roy Cohn, l’uomo che ha insegnato a generazioni di leader: “Mai chiedere scusa, colpisci sempre per primo, e se perdi, urla più forte.” Una pedagogia del pugno sul tavolo che funziona: oggi infatti non serve avere ragione, basta sembrare pericoloso. In questa ottica, la democrazia diventa un ring, la parola un’arma contundente, e la Costituzione? Un foglio di carta buona per impacchettare lo sdegno. Dazi e bazooka: guerra è pace, protezionismo è amore Sul fronte economico, i leader globali – tra una gaffe e un lancio di invettive – hanno deciso di sostituire l’Organizzazione Mondiale del Commercio con un torneo di braccio di ferro. Trump ha detto: “Due miliardi al giorno, è la più grande transazione di sempre.” L’ha detto con la stessa convinzione con cui un bambino sostiene di aver visto Batman sul tetto della scuola. In risposta, l’Europa prepara il bazooka economico, che in realtà è un bazar di PowerPoint e sottocommissioni. Intanto la Cina sorride e stampa. I dazi salgono al 104%, le merci costano come Rolex, ma tutti applaudono: “Finalmente qualcuno che fa sul serio.” Il rischio? Una guerra commerciale. Ma tanto oggi le guerre sono ibride: si combattono con tweet, sanzioni e foto ufficiali davanti a bandiere stropicciate. Conclusione: quando la politica fa rumore, la ragione mette i tappi In un’epoca in cui la coerenza è noiosa, la pacatezza è debolezza e il rispetto un lusso da radical chic, la politica si è trasformata in un grande show testosteronico. Non importa dove andiamo, ma che sembriamo vincere. E così il cittadino, spettatore pagante, resta a guardare. Con una domanda che nessuno pone più: “Ma questa gente governa, o fa i casting per Gomorra?”
Occidente S.p.A. – Nuovi regimi, vecchie glorie e l’arte di vendere la libertà a rate
“Occidente S.p.A. – Nuovi regimi, vecchie glorie e l’arte di vendere la libertà a rate” Nel 2025, l’Occidente ha finalmente deciso di liberarsi dal fastidio della democrazia, quel vecchio feticcio pieno di gente che vota senza sapere esattamente cosa sta votando. “Troppa confusione,” ha dichiarato il nuovo portavoce unico del blocco transatlantico, scelto tramite casting su TikTok. “È ora di fare ordine. Un ordine autoritario, ovviamente, ma elegante.” Il funerale dell’Occidente (con buffet e diretta streaming) Le esequie dell’Occidente, inteso come idea culturale e politica, si sono tenute in un centro commerciale della Florida. Presente solo metà dell’Europa, l’altra metà era in pausa per ricevere nuove istruzioni da Washington. “Ci hanno detto che non siamo più partner, ma fornitori di contenuti culturali e caseifici strategici,” ha spiegato un ministro europeo, mentre mostrava fiero il nuovo passaporto dell’Impero: copertina dorata, pagine bianche e un QR code per essere tracciati con amore. Il capo assoluto e la sua corte di miracoli Nel nuovo mondo, il concetto di leadership si è semplificato: un solo uomo (preferibilmente arrabbiato, ricco e con una passione per le uniformi) decide tutto. Il Parlamento? Ridotto a escape room per scolaresche. La Costituzione? Un documento da colorare nei weekend. E la stampa? Vive felice, stampando ogni giorno la frase “Tutto va benissimo, grazie”. I leader carismatici – chiamati influencer supremi – non rispondono più alle domande, ma rilasciano stories. “Oggi ho nazionalizzato la giustizia 💪✨ #FeelingPowerful” ha postato uno di loro, ricevendo 4 milioni di like e il silenzio assenso del suo popolo, troppo impegnato a scrollare per ribellarsi. La storia? Roba vecchia. Meglio l’Infostory Nei nuovi regimi, la storia non si studia: si riscrive. Nelle scuole si insegna che lo schiavismo non fu poi così male (“Almeno davano un lavoro”), che i nativi si sono estinti spontaneamente (“Come i dinosauri”) e che il colonialismo era una forma alternativa di turismo organizzato. I musei sono stati trasformati in Experience Center dove puoi vivere “La Seconda Guerra Mondiale, ma in VR” oppure “La Rivoluzione Francese con effetto pioggia e profumo di ghigliottina”. Libertà d’espressione, sì… ma solo se esprimi quello giusto In questo nuovo ordine perfetto, i libri vengono letti solo se approvati dal Ministero del Pensiero Leggero. Alcuni romanzi classici sono stati riscritti per adattarsi alle esigenze morali del regime: – “1984” di Orwell è ora “2084 – Che bellezza essere controllati!” – “Fahrenheit 451” è diventato “Istruzioni per l’uso del barbecue” – “Il giovane Holden” è stato bandito perché troppo giovane e troppo Holden. Futuro: assicurato, sterilizzato, autorizzato Il futuro? È già stato approvato con 98,6% dei voti, anche se le urne erano chiuse. In nome dell’ordine e della crescita, si è deciso che la libertà va somministrata con cautela, come un antibiotico forte: un cucchiaino al mese, solo su prescrizione del Leader. E ora, un minuto di silenzio per il pluralismo In conclusione, l’Occidente non è morto. È stato comprato, rebrandizzato, e venduto in abbonamento. I nuovi regimi non hanno bisogno di censura esplicita: basta offrire comfort, Netflix e un nemico comodo da odiare. E la libertà? Sta lì, in un angolo, come un vecchio disco di vinile: nessuno lo ascolta più, ma tutti dicono di amarlo.
Un Racconto alla Camilleri Sui Dazi Nostri “Una telefonata allunga la vita (e forse pure il prosciutto)”
Un Racconto alla Camilleri Sui Dazi Nostri “Una telefonata allunga la vita (e forse pure il prosciutto)” di Camilleri, giornalista a riposo e pensieroso Il giorno che la signora Meloni partì per l’America con la speranza di parlari col signor Trump, pareva la scena d’un film, ma di quelli comici, che si fanno ridere per non piangere. S’avvicinò all’aereo con la valigetta piena, non di documenti o trattati, ma di salumi e formaggi, ché forse l’unico modo per apriri la porta della Casa Bianca era offriri una fetta di crudo ben stagionato. Diceva che andava a difendiri l’Italia, a evitari i dazi. Ma la verità vera – e lo sapevamo tutti – era che ci andava per farsi vederi. Come si dice? “Fatti vidi, Giuvà, accussì si ricòrdano di tia.” Ora, diciamolo, Trump dell’Europa se ne frega. Per lui esiste la Cina, che fa paura, e tutto il resto è rumore di piatti rotti. Figurarsi l’Italia, che lui la confonde con una pizzeria del New Jersey. E Meloni ci va, sperando ch’iddru l’ascolta. Ma chi ci criri? Intanto, in casa nostra, si forma una “task force” per rispondere all’emergenza economica. E chi ci mettono? Lollobrigida, Urso, Foti e Giorgetti. Gente che magari sanno cucinari, ma di economia ne sanno quanto un mio zio che vendeva angurie sulla statale. I veri esperti, quelli con curriculum e testa, mancu invitati. “Troppo competenti,” dissero. “Ci mettono in soggezione.” Poi c’è la questione dei soldi. Cercano 32 miliardi come si cerca il fumo d’un arrosto. Prendono un poco dal PNRR, un poco dai fondi di coesione (che l’Italia, diciamocelo, non è mai stata capace di spenderi), un poco dai fondi per il clima. Tutto prestiti, che poi bisogna ridarli. Ma intanto si fa la scena, si dicono parole grosse, e si spera che gli italiani siano distratti. E come sempre, spuntò pure Salvini, che geluso com’è, si mise a diciri che lui con Trump c’ha un rapporto speciale. “Lo seguo dai tempi di Miss Universo,” disse, come fosse una cosa seria. Sta tentando di mettere il bastone tra le ruote a Meloni, ché i due si vogliono bene come due gatti nella stessa cesta. Intanto, Gaza brucia, e Trump pensa di costruirci un resort. Mel Gibson diventa consulente spirituale, e i diritti umani vengono messi nel cassetto insieme alle cartoline del Vaticano. L’Italia, invece, si racconta d’essere in forma. “Abbiamo creato un milione di posti di lavoro,” dicono. Ma sono lavori corti, mal pagati, e la gente non arriva a fine mese. I numeri crescono, sì, ma la carne manca. E mentre la pressione fiscale sale, i prezzi pure, e le pensioni sembrano scomparire all’orizzonte, ci dicono che “va tutto bene.” Come dire che il mare è calmo, mentre la barca affonda. La verità? Questa non è politica. È teatro. E neanche di quello buono. E la Meloni, povera picciotta, va in America sperando che una telefonata possa risolvere tutto. Ma comu si dice a Vigàta: “Cu va pi fissa, torna pi fissa.”
Superdazzi, superdisastri e supercazzole: il mondo secondo chi comanda
🗞️ Superdazzi, superdisastri e supercazzole: il mondo secondo chi comanda Se nel passato i leader mondiali si sfidavano a colpi di trattati, ora preferiscono scambiarsi meme e insulti via social, come liceali ripetenti al secondo giro di terza media. E in questa nuova stagione geopolitica, il mondo sembra diventato un tavolo da Risiko senza dadi, dove ognuno si inventa le regole pur di conquistare la Kamčatka (o, in alternativa, un voto in più su Twitter). 🧨 Trump e il 104%: la matematica dell’Apocalisse Donald Trump, nel ruolo di contabile galattico con problemi di calcolatrice, ha imposto dazi alla Cina con una grazia pari a quella di un gorilla in un negozio di porcellane. Il 104% non è solo una cifra, è una dichiarazione d’intenti: se esagerare è un’arte, Trump ha appena vinto la Biennale del Protezionismo. Ma attenzione, perché dietro questa strategia c’è un’ideologia raffinata: colpire l’economia globale per salvare l’America dal logorio della vita moderna. Peccato che nel frattempo anche le borse si siano “salvate”… dal denaro. 🇪🇺 Il bazooka europeo: ovvero, quando ti svegli tardi e hai finito i proiettili L’Unione Europea risponde. E lo fa con un bazooka, parola che rassicura tutti, tranne gli economisti. Dopo mesi passati a redigere verbali e produrre infografiche, finalmente Bruxelles ha deciso di reagire: un mix tra diplomazia e guerra delle figurine, con Tajani nel ruolo del centravanti arretrato. E l’Italia? Tranquilli: Giorgia Meloni ha convocato una task force a Palazzo Chigi. Il che, nel linguaggio politico, significa che qualcuno ha stampato una cartellina e ha aperto un gruppo WhatsApp. 🇮🇹 25 miliardi di euro e un biglietto per Washington La Meloni volerà negli USA, probabilmente per spiegare a Trump che l’Italia è un alleato storico, purché i dazi non tocchino Grana Padano e prosecco. Intanto, annuncia un piano da 25 miliardi: sostegno alle imprese, incentivi e una generosa distribuzione di comunicati stampa. Nel frattempo Salvini, sempre pronto a occuparsi del nulla con grande passione, propone di coinvolgere i taxi nella geopolitica. Pare che i tassisti abbiano già risposto: “Se si tratta di scendere in piazza, solo con supplemento notturno”. 🧠 La Casa Bianca come un reality show: Musk vs Navarro Negli USA la Casa Bianca pare diventata un incrocio tra The Apprentice e Lo Zoo di 105. Navarro accusa Musk di essere un “assemblatore di batterie cinesi”, Musk replica definendolo “più stupido di un sacco di mattoni”. In Italia, qualcuno avrebbe già proposto di candidarli entrambi alle prossime Europee: uno a destra, l’altro a destra della destra. ⚰️ Il lato oscuro della cronaca In mezzo a questo circo geopolitico, l’Italia si risveglia con l’eco di una tragedia vera: l’omicidio del biologo Alessandro Coatti in Colombia. In un mondo dove la politica urla, la cronaca vera ci ricorda in silenzio che esistono storie che non si misurano in sondaggi, ma in dignità e dolore. 🔚 Conclusione: Superdazzi, supercani sciolti e supercazzole Viviamo in tempi dove le scelte più complesse vengono comunicate con emoji e maiuscole, e dove l’arte di governare è stata sostituita da quella di tenere il punto davanti a un microfono. Ma c’è speranza: la satira sopravvive, come l’unico modo civile per gridare: “Il re è nudo, e ha anche un pessimo stylist”.
Lo scudo, il dazio e la supercazzola strategica
Lo scudo, il dazio e la supercazzola strategica di Luciano Di Gregorio Nel cuore pulsante di Palazzo Chigi, tra un selfie istituzionale e una task force da salotto, è stato finalmente partorito il miracolo della politica economica italiana: lo scudo antidazzi. Non un’arma, non una barriera. Ma una specie di mantello dell’invisibilità fiscale, cucito con gli avanzi del PNRR e qualche buona intenzione in saldo. Mentre Trump gioca a Risiko con le economie globali e impone dazi con la delicatezza di un toro in un duty free, l’Italia risponde come sa fare meglio: convocando vertici, rinviando decisioni e cercando Wi-Fi per caricare i comunicati stampa. Meloni chiama, le imprese ascoltano (forse) La Premier, con piglio risoluto e sguardo da Annunciazione, ha dichiarato: “Oggi saranno le imprese ad essere ascoltate.” E da domani, forse, qualcuno risponderà anche. L’idea è semplice: creare un dialogo. Ma con chi? Con le stesse imprese che, nel frattempo, stanno cercando di capire se il “dazio” sia una tassa o un personaggio di “Don Matteo”. Nel frattempo, il governo garantisce protezione. Ma non ai prezzi, né all’export. Piuttosto alla propria immagine, con una campagna diplomatica che prevede una missione a Washington, probabilmente per dire agli americani: “Scusateci, siamo italiani.” Il grande ritorno del “Ministro del Rinvio” A sorreggere questa architettura mistica c’è il vicepremier Tajani, che riesce nel difficile compito di sembrare sempre d’accordo con tutti, anche con quelli che si contraddicono tra loro. Salvini, invece, colto da improvvisa ispirazione, ha colto l’occasione per proporre un collegamento tra i dazi e… i taxi. Del resto, per il segretario leghista ogni problema può essere risolto con un numero: 49 (milioni) oppure 35 (euro a corsa). Non importa se l’argomento era la politica doganale internazionale. L’Europa gioca a “Trova l’alleato” Nel frattempo, l’Unione Europea, dal canto suo, appare come un condominio senza amministratore, dove ognuno abbassa le tapparelle al passaggio del postino doganale. Von der Leyen propone di “rafforzare la resilienza”. Tradotto: più parole, meno contenuto. Il riarmo economico si chiama “Prontezza 2030” – che suona come un nuovo profumo di Jean Paul Gaultier ma senza fragranza. Una corsa agli armamenti da attuare con calma olimpica, che in sintesi significa: quando i buoi saranno scappati, chiuderemo anche il recinto… ma con stile. Conclusione (ma anche no) In questo teatro dell’assurdo, tra scudi immaginari, dazi reali e alleanze di cartapesta, l’Italia si scopre ancora una volta esperta in alchimia politica: trasformare la confusione in retorica, e la retorica in comunicato.
Trump lancia bombe, Meloni prende tempo, Salvini mette like
Trump lancia bombe, Meloni prende tempo, Salvini mette like di Luciano Di Gregorio Donald Trump si sveglia una mattina, si guarda allo specchio e twitta: “Non siate deboli, non siate stupidi.” Poi dichiara guerra economica al mondo, tranne che alla Russia. E tutti pensano: “Ecco, è tornato il Trump che ci mancava. Quello che brucia trilioni con un post e poi dice che era uno scherzo.” Il problema non è lui. Il problema è chi, in Europa, lo prende sul serio. Peggio: chi vorrebbe tanto imitarlo ma senza avere né i muscoli né i satelliti. E così inizia l’ennesimo lunedì di passione per i mercati. Wall Street va giù, Milano la segue come una groupie disperata, e nel mezzo ci sono loro: i leader europei che fingono di sapere cosa fare. Trump, l’arte del caos (con copyright) Trump non è un pazzo. Trump è un pazzo organizzato. Ha una dottrina economica primitiva come una clava, ma funziona: spaventa, confonde, colpisce. Fa finta di negoziare, poi mena. Fa finta di cedere, poi mena più forte. Chi non capisce è stupido. Chi lo imita senza avere un dollaro stampabile è peggio: è italiano. Giorgia, il doppio passo dell’equilibrista col megafono spento E Meloni? Ah, Giorgia. Ha costruito una carriera sulle ruspe di Salvini, sull’euroscetticismo da bar sport e sul “prima gli italiani”. Poi, una volta a Palazzo Chigi, ha scoperto che i decreti si firmano con le forbici in mano, perché prima tagli, poi prometti, poi neghi. Ora si ritrova in trappola: Allora che fa? Convoca una “task force”. Che in gergo politico vuol dire: “Non ho idea di cosa fare, quindi metto intorno al tavolo quelli che ne sanno meno di me, così mi sento meno sola.” Nel frattempo parla poco, e quando lo fa, è per dire che “l’allarmismo va evitato”. Come dire: sta bruciando il salotto, ma evitiamo di gridare al fuoco. Salvini, il solito: ruspa nel cuore, tastiera in mano E il Capitano? Lui non aspetta altro. Da settimane gira col navigatore puntato su “Ministero dell’Interno – corsia preferenziale”, ma ora spera che il caos globale gli regali lo sprint. Ha detto che i dazi di Trump “sono un’opportunità”. E certo: se la recessione picchia, può ricominciare a parlare di migranti. Se la Meloni vacilla, lui torna a dire “lo avevo detto”. Non guida nulla, ma aspetta che qualcun altro sbagli il parcheggio. L’Europa? Presa in ostaggio… da se stessa Mentre a Washington si spara a colpi di tweet e dazi, Bruxelles risponde con i comunicati stampa. Von der Leyen dice che bisogna “preparare la guerra per avere la pace”. Un aforisma che neanche un Baci Perugina sovranista oserebbe. Si parla di “contro-dazi selettivi”, come se la risposta a un pugno fosse una carezza con tono fermo. Il grande spettacolo del niente Quello a cui stiamo assistendo non è un confronto politico. È una fiction in cui ogni attore recita male il suo ruolo. Trump fa la parte del despota illuminato dal marketing. Meloni finge di essere la donna forte che riflette (in silenzio). Salvini fa la cheerleader della guerra economica, ma a bordo campo. L’Europa scrive rapporti mentre l’economia crolla. E noi? Noi paghiamo il biglietto, seduti in prima fila, a guardare la commedia tragicomica del “chi comanda davvero?” Nel frattempo i prezzi salgono, i salari no, e i governi fanno finta che tutto sia normale. Morale (amara) Il mondo brucia. Trump ride. Meloni tace. Salvini twitta. L’unico dazio che non salta mai è quello che paghiamo noi, in silenzio.
Salvini vuole il Viminale. E Meloni che fa? Conta i coltelli.
Salvini vuole il Viminale. E Meloni che fa? Conta i coltelli. di Luciano Di Gregorio Matteo Salvini non ha mai fatto mistero di voler tornare al Viminale, il ministero da cui ha costruito la sua fortuna mediatica e il suo storytelling muscolare. Come un ex attore che rivuole il suo ruolo iconico, continua a bussare al camerino del Ministero dell’Interno con lo stesso sguardo di chi dice: “Quel posto è mio, l’ho reso famoso io.” E forse, da un certo punto di vista, non ha tutti i torti: nessuno ha trasformato il Viminale in uno show personale come Salvini nel 2018-2019. Ma il problema non è tanto la nostalgia da palcoscenico. Il problema è che la regista oggi è un’altra: Giorgia Meloni. E lei non sembra affatto intenzionata a rimettere in scena quella tragicommedia. Meloni, la regia solitaria Giorgia Meloni si è costruita una leadership fondata su due pilastri ben cementati: verticalità e controllo. Il primo impone che si sappia chi comanda, il secondo che nessuno rubi la scena. E Salvini – con la sua agenda parallela, le sue sparate sui migranti, il flirt intermittente con Putin e le ruspe da barzelletta – è tutto ciò che Meloni vuole evitare: imprevedibilità, esposizione, concorrenza. Quindi, mentre Salvini alza il volume sulla “sicurezza”, sul “blocco navale” e sul “ritorno all’ordine”, Meloni fa ciò che fa meglio: finge di ignorarlo e poi si muove col coltello sotto il tavolo. Nessun attacco diretto, ma un isolamento costante, un ridimensionamento lento e chirurgico. Il Viminale è potere Perché Salvini vuole davvero il Viminale? Perché è il cuore mediatico del governo. È lì che si annunciano le “emergenze”, si firmano i decreti, si fanno le conferenze stampa con i numeri delle espulsioni. È il luogo dove puoi parlare alla pancia del Paese senza passare da Palazzo Chigi. Ma proprio per questo, Meloni non glielo darà mai. Perché il Viminale oggi è il contrappeso alla Presidenza del Consiglio, e lasciarlo a uno come Salvini significherebbe accettare il caos, il dualismo, la guerriglia interna. Meloni non è Conte. Non si fa fregare da chi urla più forte. La Lega, una finta alleata In tutto ciò, la Lega è diventata il vero enigma della maggioranza. Da un lato appoggia ogni provvedimento, dall’altro continua a marcare il territorio come un cane in cerca di padroni. Salvini vorrebbe tornare il leader sovranista per eccellenza, ma è incastrato in un governo che non è suo, non è populista, non è nemmeno tanto “di destra” quanto sembra. I sondaggi lo dicono chiaramente: la Lega non cresce. Il blocco meloniano ha divorato lo spazio che un tempo era leghista, e Fratelli d’Italia è riuscito dove Salvini aveva fallito: istituzionalizzare il radicalismo. E adesso? Adesso Salvini preme. Meloni finge di non sentire. Ma sotto la superficie, si prepara una guerra di posizione. Non sarà una crisi di governo, ma una serie di mini-battaglie: poltrone europee, rimpasti, rapporti con la Francia, il patto di stabilità, e naturalmente l’eterna questione migratoria. Meloni ha dalla sua il comando e l’agenda. Salvini ha solo la nostalgia di un’epoca in cui i porti chiusi erano una bandiera e non una stanca replica. Conclusione Salvini vuole tornare protagonista. Meloni vuole evitare il remake. Il Viminale è il simbolo di un potere che oggi non appartiene più al Capitano, ma alla Premier. E Giorgia non ha alcuna intenzione di lasciare il timone. Sa benissimo che, in politica, quando apri una porta per accontentare qualcuno, poi ti trovi a chiudere le finestre per sopravvivere. E lei, per ora, vuole solo una cosa: restare viva al centro della scena. Anche a costo di vedere Salvini recitare fuori copione, nel retropalco.