ITALIA, PRIMAVERA 2025 – IL GOVERNO BALLO SULLA BOMBA (ANCORA ACCESA) In un’Italia dove l’economia danza il tip-tap su una mina antiuomo chiamata “inflazione”, la premier Giorgia Meloni sembra aver preso lezioni di equilibrio circense, correndo sopra una bomba che sfrigola più di una padella con l’olio bollente. Il trucco? Non guardare in basso. Mai. Dietro di lei, Giuseppe Conte in versione maratoneta d’opposizione corre e grida “Elezioni!” come un venditore ambulante con un solo prodotto in saldo. E a ben guardare, il popolo italiano si sta preparando al grande spettacolo, popcorn alla mano, in attesa dell’inevitabile botto o, per i più ottimisti, di una magia dell’ultimo secondo. Nel frattempo, Salvini è stato visto armeggiare con Google Maps cercando “dove si trova il consenso”, mentre Tajani continua a parlare in conferenze stampa in cui l’unico spettatore rimasto è la pianta ficus nell’angolo della sala. Tra un decreto sgonfiato e una manovra elastica (ma che tira da una sola parte), il governo sembra più impegnato a rincorrere sondaggi che a gestire le priorità. E mentre gli italiani contano i centesimi come fossero pepite d’oro, Palazzo Chigi risponde con slogan che sembrano usciti da un generatore automatico di frasi motivazionali: “Avanti tutta!”, “Ce la faremo!”, “Abbiamo un piano!” (scritto a matita). Ma tranquilli, l’estate è vicina: tempo di ferie, gelati… e forse un’altra crisi di governo da godersi sotto l’ombrellone.
Trump, l’uomo che trattava dazi come caramelle
Trump, l’uomo che trattava dazi come caramelle Donald Trump si sveglia la mattina, guarda fuori dalla finestra, si accende l’elmetto immaginario e decide: “oggi lanciamo un dazio”. Poi però ci ripensa. Lo sospende. Lo raddoppia. Lo dirige contro la Cina. O forse no. Forse lo dirotta sull’Europa, così per tenersi in allenamento. Il dazio è il suo yoga, la sua forma di meditazione attiva. Mentre noi facciamo stretching, lui mette il 25% sulle auto tedesche, poi si rilassa con un 10% sui microchip, e conclude la sessione con una tassa punitiva sulla mozzarella di bufala (colpevole, evidentemente, di essere troppo buona). In questi giorni ha concesso una “pausa di 90 giorni sui dazi” – tranne alla Cina, ovvio. Un gesto magnanimo, un po’ come un pitbull che molla il polpaccio della vittima per tre mesi, in segno di pace. Ma attenzione: Trump non è solo tariffe e minacce commerciali. Il 15 aprile, ha in agenda un incontro con il suo vice e, presumibilmente, con se stesso. Per discutere delle solite cosette: smantellare le regole ambientali, ridurre le tasse ai ricchi, spiegare a Zelensky che deve arrendersi perché “così la smettiamo tutti e torniamo a vedere il Super Bowl”. L’Agenda 47, il suo programma per tornare alla Casa Bianca, è un capolavoro: meno tasse, meno leggi, più trivelle, più armi, e via le “burocrazie”. Se gli lasciassimo il tempo, abolirebbe anche l’ortografia. Obiettivi chiari, stile da bar In politica estera, Trump punta tutto sul “dire la verità che non ti puoi permettere di dire”, tipo: “l’Ucraina ha perso”, oppure “la NATO non paga abbastanza”, oppure “ci serve il vostro gas, ma solo se lo pagate tre volte tanto”. Un approccio diplomatico, in stile cowboy ubriaco che negozia la pace con una pistola sul tavolo. Sull’immigrazione, le intenzioni sono limpide: revocare protezioni, costruire nuovi muri, usare le catene, e far pagare il tutto al Messico, o magari all’Unione Europea, perché tanto sono tutti “freeloaders”. E sul digitale? Beh, Musk può dormire sereno: Trump non gli chiederà mai di rimuovere contenuti illegali entro 24 ore. Piuttosto lo nominerà Ministro della Verità, con diritto di replica automatica a qualsiasi fact-checker. Conclusione: Trump è già tornato (nella sua testa) La verità è che Trump non aspetta il 2025. Per lui è già presidente. La pausa dei dazi è già legge. L’Ucraina ha già perso. Il gas è già nostro. E l’Europa? L’Europa è quel posto pieno di regole, di precauzioni, di diritti, di etichette sui cibi, che va messo in riga come uno scolaretto che non vuole bere latte ormonato. Ma attenzione: se la Commissione europea non si piega, se osa ancora difendere il vetro di Murano, il Parmigiano, o — peggio — la salute pubblica, Trump tirerà fuori la sua arma segreta: il documento delle doglianze. Una Bibbia americana fatta di lamentele, richieste impossibili e pretese da impero in saldo. Che poi, a guardarlo bene, non è un piano di governo. È la lista di nozze del capitalismo aggressivo.
Made in Europe: il lusso di morire più tardi
Made in Europe: il lusso di morire più tardi Pare che negli uffici di Washington circoli un documento segreto, lungo quanto la lista della spesa di un ipocondriaco paranoico. È la lettera a Babbo Bruxelles: contiene tutte le lagne, le doglianze, gli sfoghi e le frustrazioni dell’imprenditoria americana. E no, non c’è scritto “pace nel mondo”, ma “meno etichette sui polli imbottiti di ormoni”. Ognuno ha i suoi sogni. In cima alla lista dei desideri c’è la richiesta più nobile: poter vendere in Europa carne che fa venire la barba anche alle galline. “Potenzialmente rischiosa per la salute”, dicono alcuni studi. Ma potenzialmente è tutto: anche inciampare in bagno è potenzialmente letale. Quindi avanti, lasciamoci vivere (ma meglio se in California, che lì è legale). Segue a ruota il dramma degli OGM: in Europa si ostinano a volerli etichettare. Apriti cielo! Come se informare il consumatore fosse un diritto. Se poi, leggendo, sceglie di non comprare, è censura commerciale! Un vero sopruso contro la libertà americana di vendere qualunque cosa con lo zucchero a velo sopra. E poi c’è la questione dei pesticidi. L’UE ne ha vietati 72, che gli USA usano ancora con disinvoltura. Risultato? L’uva californiana rischia di rimanere sulle navi come clandestina agricola. Ma noi europei abbiamo il vizio strano di voler vivere più a lungo. E infatti, spoiler: viviamo mediamente 3 anni di più. In Italia, addirittura 5. Coincidenze? No, sono i benefici collaterali di quel fastidio chiamato precauzione. Sul fronte digitale, la musica non cambia. L’Europa chiede a Musk e compagnia di togliere contenuti illegali in 24 ore. Apriti cielo 2 – la vendetta. “Censura!” gridano dalle poltrone imbottite di Palo Alto. Ma se posti una minaccia o una truffa, forse sì, sarebbe anche ora che qualcuno ti tolga il megafono. E le tasse? Eh. I colossi tech fanno miliardi in Europa ma versano briciole. Poi però piangono perché l’UE li costringe a trattare gli altri competitor come esseri umani. Il Digital Market Act? Un atto di guerra, per loro. In realtà, è solo fine dell’asilo nido. Basta col “io sono Google, quindi faccio come mi pare”. Nemmeno l’arte scampa: la direttiva Huawei impone alle piattaforme di streaming di offrire almeno il 30% di contenuti europei. Una tragedia. Perché – incredibile a dirsi – c’è vita anche oltre Hollywood. E non solo su Netflix: pure nei cinema veri. Ma per loro è protezionismo. Per noi è difendere la cultura. Perché se non lo fa l’Europa, chi lo fa? Topolino? E poi ci sono le denominazioni: basta con il Parmesan da discount che sembra gesso grattugiato, o con i salami made in Ohio che si chiamano “Prosciutto di Parma™”. L’UE ha deciso che le parole hanno un senso. E se scrivi “Murano”, dovrebbe esserci almeno una fornace in zona. Tutto questo, secondo la visione trumpiana, è un attentato all’America. Che ora, nel nuovo ciclo di egemonia dolente, vorrebbe convincere l’UE a cambiare le regole in nome del libero commercio. O, più realisticamente, in nome del fatto che hanno più portaerei e più gas da vendere. Ma c’è una notizia, forse spiacevole, da dare agli amici americani: l’Europa non è una colonia, anche se ogni tanto si comporta come tale. E se c’è un modello che — con tutti i suoi difetti — permette ai cittadini di vivere più a lungo, con più tutele e meno diserbante nel piatto… forse vale la pena difenderlo. Trump vuole trattare? Benissimo. Ma non è detto che dobbiamo inginocchiarci ogni volta che qualcuno a Washington si sveglia e decide che il vetro di Murano è un ostacolo al libero mercato. Perché sì, magari noi europei abbiamo l’aria un po’ snob, un po’ lentina, e facciamo troppe riunioni. Ma alla fine della fiera, moriamo più tardi. E, modestamente, non è un dettaglio da poco.
Donald Trump, l’oracolo dei disastri: un’America che si specchia nel suo delirio
Donald Trump, l’oracolo dei disastri: un’America che si specchia nel suo delirio Tutti, ma proprio tutti, appesi ogni giorno alle labbra di Donald Trump. L’uomo spara una boiata al giorno — a volte due, se ha dormito bene — e il circo mediatico si fionda, sbava, rilancia. È il gioco del cane che rincorre la macchina: non sa perché, ma non riesce a farne a meno. Eppure, se togli il rumore di fondo e guardi bene, una cosa emerge chiaramente da questi mesi: prevedere Trump è inutile. Non perché sia geniale. Perché è illogico. Le sue diagnosi, tutto sommato, sono quelle che farebbe anche un taxista sobrio: l’economia americana è devastata, la classe media è evaporata, la globalizzazione ha fatto terra bruciata. Grazie, Donald. Applausi. Il problema non è quello che vede, è come crede di risolverlo. Le sue “soluzioni” sono una collezione di improvvisazioni da bar di provincia. I dazzi? Mah. Forse nel 1848 avrebbero avuto un senso. Oggi sembrano un tentativo disperato di mettere le dita nei buchi dello scafo mentre la nave affonda. E il suo vice, Vance? Trattato come un troglodita sui media liberal, ha scritto un libro diventato film, Hillbilly Elegy, che racconta il collasso culturale e materiale di un’America interna, bianca, disillusa, drogata — e dimenticata. La stessa America che, per intenderci, Trump cavalca come uno stregone da luna park, fingendo di capirla mentre le vende pentole arrugginite con lo sguardo di chi ha fiutato il business. Poi c’è l’Ucraina. Siamo ancora lì a raccontarci che può vincere, mentre Trump — rozzo, brutale, ma almeno sincero — dice che no, la guerra è persa. Non è diplomazia, non è geopolitica raffinata: è uno che dice a voce alta quello che in molti pensano in silenzio. Male? Forse. Ma più onesto di certe barzellette da comunicato stampa NATO. Immigrazione? Altro problema gigantesco. Le città americane affogano nel caos, nelle tende, nella disperazione. Trump propone catene, muri, manganelli. Roba che fa orrore. Ma l’alternativa sarebbe…? Il silenzio colpevole dei centristi moralisti che parlano di accoglienza mentre vivono in quartieri blindati. Il punto è sempre quello: i problemi ci sono, si vedono a occhio nudo. Le risposte di Trump sono rozze, spesso vergognose, ma sono risposte. La sinistra liberal? Fa le smorfie. Mentre le città bruciano, loro stanno ancora litigando sull’uso corretto dei pronomi. E i nostri opinionisti da salotto? Inviperiti, sdegnati, offesi. Lo chiamano fascista, idiota, criminale. Si esaltano davanti alle telecamere come se stessero salvando il mondo. Ma la verità è che fare la guerra trampa parole nei talk show non costa nulla. Non cambia nulla. È solo autocompiacimento. Forse sarebbe ora di smettere di insultarlo e iniziare a capire perché ha vinto. E perché, con ogni probabilità, potrebbe vincere ancora. Perché quelli che votano Trump non sono alieni. Sono gli stessi che votarono Biden. E prima ancora Obama. Chi non capisce questo, chi continua a vivere in una bolla moralista e ideologica, è destinato a svegliarsi ogni quattro anni con l’incubo Trump nel letto. E a quel punto, l’unica bambolina voodoo che servirà… sarà la propria.
Manuale di sopravvivenza al Trampaverso
Manuale di sopravvivenza al Trampaverso ovvero: come smettere di preoccuparsi e imparare ad amare il dazio Tutti i giorni, da qualche parte nel mondo, un notiziario si sveglia e sa che dovrà correre dietro all’ultima sparata di Donald Trump. Che sia una proposta di bombardare un uragano, una stretta di mano con Kim Jong-un o un “truth” con più maiuscole che idee, the Donald detta l’agenda con la grazia di un ippopotamo su pattini a rotelle. E noi, come criceti in panico, a inseguirlo. Il fenomeno è noto: Trump parla, l’opinione pubblica risponde. Come? Con un misto di indignazione, sarcasmo, editoriali accorati e meme. Tonnellate di meme. Ma se filtriamo le infinite cianfrusaglie del suo pensiero, come si separa il grano dalla paccottiglia? E soprattutto: c’è grano? In realtà, sì. Il bello — o il tragico — è che i problemi che Trump elenca sono veri. L’economia americana sfiatata, il ceto medio disossato, il fentanyl che ha sostituito il sogno americano con un sonno eterno: tutto sacrosanto. Solo che poi arriva la cura, e pare scritta da uno sceneggiatore ubriaco di South Park. Il mondo brucia? “Dazi”. Le città piene di disperati? “Muri”. La guerra in Ucraina? “È persa, chiudiamo baracca e burattini e buonanotte al secchio”. Non serve Kissinger, basta un tweet e via andare. Il suo vice, J.D. Vance, ex enfant prodige della disperazione bianca, è trattato in Europa come un oggetto esotico, tipo maschera tribale o souvenir da safari politico. Ma ha scritto un libro che è diventato un film che è diventato una conferma: l’America che vota Trump non viene da Marte, viene dall’Ohio. E ci vive ancora. Solo che adesso ha una pistola, una connessione a Internet e un conto corrente svuotato dalla Walmart Economy. Nel frattempo, l’intellighenzia da talk show continua a lanciare insulti come coriandoli: “fascista”, “clown”, “pericolo per la democrazia”. Tutto giusto, ma del tutto inutile. Non costa nulla, fa sentire bene, non cambia niente. È come fare la guerra a un tornado con un ventaglio di seta: elegante, ma inefficace. La verità — ma che non si dica troppo forte, sennò salta la linea editoriale — è che Trump è la diagnosi con la calligrafia tremenda, non la cura. Fa domande sensate e risponde come uno che ha letto solo i titoli dei giornali (dopo averli comprati con i soldi degli altri). Ma è lì, ed è lì perché milioni di persone si sono stancate di essere compatite da chi li chiama “rednecks” tra un brunch e una lezione di etica postcoloniale. Morale della favola? Non serve una bambolina voodoo. Serve capire. E poi magari sì, anche un po’ di voodoo, ma con stile. In fondo, se vogliamo davvero opporci al trumpismo, dovremmo almeno riuscire a sembrare più seri di lui. Che non è difficile. Ma a volte pare impossibile.
La Danza dei Dazi e dei Divi
La Danza dei Dazi e dei Divi Ovvero: come la politica mondiale è diventata uno show da prima serata (con audience sempre più confusa) Benvenuti, signore e signori, alla Commedia della Politica Globale! Uno spettacolo tragicomico in replica perpetua, con colpi di scena improbabili, alleanze traballanti e protagonisti convinti di essere… divinità in terra. Sul palco principale, direttamente da Mar-a-Lago, ecco a voi Donald “il Prestigiatore” Trump: l’uomo che, con uno schiocco di dita (e un tweet), trasforma trattati internazionali in coriandoli e alleanze storiche in siparietti da talk show. Il suo numero preferito? Il “Dazio Boom”, un trucco che consiste nel far pagare tutti tranne lui… e incassare comunque gli applausi. Nel ruolo della co-protagonista confusa, ritroviamo l’Europa, vestita da funambola malferma che barcolla tra promesse di sovranismo, stretti bustini democratici e goffi tentativi di imitazione americana. Il suo numero? La “Capriola del Contratto Sociale”: togliere fondi a scuola e sanità per investirli in droni e carri armati. Applausi scroscianti dal backstage della NATO. Ma non finisce qui! In platea – che poi è anche dietro le quinte, e spesso sul palco senza preavviso – siedono leader assortiti, consiglieri esperti in apparizioni mistiche, e una serie di tecnocrati-ballerini che danzano tra dossier e veline come se fosse una puntata di “Ballando con le Sanzioni”. A sorpresa, in una scena degna di Shakespeare in salsa reality, l’Italia sfoggia la sua tragedia personale: il Governo e l’Opposizione che, a forza di parlarsi addosso, finiscono per parlarsi contro. Ma tranquilli, c’è sempre un Comitato d’Emergenza del Nulla pronto a rilasciare comunicati che sanno di PowerPoint dimenticato in sala riunioni. E mentre i professori universitari, trasformati in monaci silenziosi, si aggirano nei corridoi delle accademie evitando il sapere come se fosse un virus respiratorio, la “Realpolitik” diventa uno spettacolo d’ombre cinesi. Un mondo dove le idee costano troppo, e i meme vanno a ruba. Il gran finale? Un vertice internazionale dove tutti parlano insieme, ma in lingue diverse, e nessuno ascolta. Trump promette di “salvare l’Occidente”, l’Europa risponde con una strategia chiamata “vedremo”, e i cittadini – noi, il pubblico pagante – applaudiamo, perché non sappiamo più se stiamo assistendo a una tragedia o a un talent show. Ecco a voi, dunque, la nuova stagione della politica mondiale: più Netflix che Parlamento, più influencer che statisti, più like che leggi. Sipario? Macché. Si riprende tra cinque minuti, dopo l’ennesimo scandalo. 0 views politica e satira La Danza dei Dazi e dei Divi lucianodigregorioart@gmail.com – 11 Aprile 2025 1 view politica e satira La Bestia Nera di Trump lucianodigregorioart@gmail.com – 11 Aprile 2025 0 views Politica Italiana L’economia dei dazi: il nuovo volto delcapitalismo in crisi lucianodigregorioart@gmail.com – 11 Aprile 2025 0 views politica e satira “Comprare è un dovere patriottico (soprattutto se sai prima cosa succede dopo)” lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 0 views POLITICA , politica e satira , Uncategorized Trump Imparerà Ad Amare il Digital Yuan lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 0 views POLITICA , politica e satira Il grande ritorno del muro… doganale! lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 0 views politica e satira Trump: “Che giornata!” Ma tranquilli, ne stanno arrivando altre. E sono sempre più grandi. Come i dazi. lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 1 view politica e satira Rivoluzione a Bruxelles: il burro d’arachidi non passerà! lucianodigregorioart@gmail.com – 10 Aprile 2025 1 view politica e satira Dazi, dogane e dignità perdute: anatomia di un mondo che si fa la guerra con le bollette doganali lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 3 views CALCIO L’Inter gioca a calcio. Il Bayern gioca a nascondino. lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 0 views politica e satira LA LOGICA DEL BUFFONE CON IL BAZOOKA lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 1 view politica e satira Occidente S.p.A. – Nuovi regimi, vecchie glorie e l’arte di vendere la libertà a rate lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 2 views politica e satira Un Racconto alla Camilleri Sui Dazi Nostri “Una telefonata allunga la vita (e forse pure il prosciutto)” lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 1 view POLITICA , politica e satira Superdazzi, superdisastri e supercazzole: il mondo secondo chi comanda lucianodigregorioart@gmail.com – 9 Aprile 2025 1 view POLITICA , politica e satira , Politica Italiana Lo scudo, il dazio e la supercazzola strategica lucianodigregorioart@gmail.com – 8 Aprile 2025 1 view POLITICA , politica e satira Trump lancia bombe, Meloni prende tempo, Salvini mette like lucianodigregorioart@gmail.com – 8 Aprile 2025 2 views politica e satira , Politica Italiana Salvini vuole il Viminale. 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La Bestia Nera di Trump
“Dazi, capitalisti e altre favole della buona notte” di Luciano Di Gregorio – La Satira di Stato C’era una volta il libero mercato. Correva felice per le praterie globalizzate, abbracciava tutti con catene di montaggio transcontinentali, mentre raccontava ai bambini del terzo mondo che un giorno, forse, avrebbero potuto lavorare per 10 centesimi l’ora anche loro. Poi arrivò Trump, l’orco protezionista, con la sua clava fatta di dazi e tweet, e picchiò forte sulle esportazioni cinesi gridando: “America first!” — ma la voce era quella del capitalismo in crisi, che non sapeva più a che santo votarsi dopo aver delocalizzato pure il buon senso. Il capitalismo dell’austerità ha sostituito la crescita con la potatura. Un po’ come curare un albero malato segandogli il tronco. Così, mentre le élite fanno brunch tra i grafici del PIL, ai lavoratori resta la minestra — quella riscaldata dei sussidi dimezzati e dei contratti a tempo determinatissimo. Dicono che i dazi siano serviti a difendere l’industria americana: nel frattempo, l’unico settore che prospera è quello delle armi… e delle opinioni su YouTube. La guerra commerciale USA-Cina è il remake malriuscito di Guerre Stellari, ma con meno effetti speciali e più consiglieri economici in completo grigio topo. Trump impone dazi, la Cina risponde con panda robot che fabbricano microchip mentre sorvegliano i cittadini con droni a forma di colibrì. E nel mezzo? Noi. Europei. A metà tra l’ipocrisia e la Merkel-nostalgia, osserviamo da bordo campo, con la socialdemocrazia che barcolla come un vecchio pugile suonato. Il welfare è diventato un brutto ricordo, come il modem a 56k. Tagli su tagli fino a fare invidia ai saldi di gennaio. Ma tranquilli: ci dicono che “l’economia si riprenderà”. Sì, certo, come un pugile dopo il KO. E intanto, nei talk show, economisti da salotto pontificano su “resilienza” e “merito” mentre fuori la gente fa la fila al discount sperando in una promozione: una scatoletta gratis ogni tre CV inviati a vuoto. Poi, come in ogni favola che si rispetti, arriva la morale: serve un nuovo modello. Una “economia della solidarietà”, dicono. Ma lo dicono piano, sottovoce, come se avessero paura che qualcuno li senta — tipo il Fondo Monetario, o Elon Musk. D’altronde, parlare di giustizia sociale oggi è come proporre un falò di SUV nel centro di Milano: radicale, poetico, inutile. Eppure, tra le crepe del sistema, qualcosa si muove. Forse un brivido di coscienza, forse solo l’ennesimo specchio infranto. Ma una cosa è certa: il capitalismo non è morto. Sta solo cambiando costume. Come ogni illusionista, ha bisogno di crisi per sembrare ancora indispensabile. Ma il trucco si vede. E il pubblico comincia a fischiare.
“Comprare è un dovere patriottico (soprattutto se sai prima cosa succede dopo)”
“Comprare è un dovere patriottico (soprattutto se sai prima cosa succede dopo)” Ore dopo, le tariffe protezionistiche vengono congelate. Tutte tranne quelle verso la Cina, ovviamente, perché, si sa, nel Risiko della geopolitica qualcuno deve pur finire nel parco della ZTL commerciale. E le Borse? Boom. Esplodono di entusiasmo, come adolescenti al concerto dei BTS. Wall Street rimbalza. Gli indici si tingono di verde, e no, non è per l’ecologia. A quel punto, qualcuno comincia a farsi delle domande: ▶ E se il “great time to bui” non fosse stato solo un refuso con caps lock ma un segnale in codice? ▶ E se fosse stato un avviso per pochi, ma ottimi amici? ▶ E se il giorno dopo scoprissimo che a comprare, quando tutto era ai minimi, sono state società collegate a qualcuno che nel pomeriggio ha sospeso i dazi? Benvenuti nella nuova frontiera del capitalismo motivazionale: compra basso, vendi alto, e se possibile… scrivilo prima in maiuscolo. Nel frattempo su Truth Social piovono reazioni. Alcuni sostenitori gridano al genio visionario: “Lo diceva anche Nostradamus, solo che lui usava quartine e non tweet.” Altri, un po’ meno convinti, suggeriscono che “bui” fosse in realtà l’inizio di un colpo di tosse digitato per sbaglio. Ma nel cuore della notte, quando le borse chiudono e i bot dormono, qualcuno si chiede: E se fosse tutto stato orchestrato? Se fosse l’invenzione di un nuovo strumento finanziario? Il “pump & tweet”. Un tempo c’erano gli insider trader. Oggi c’è l’“influencer trader”: l’unico che può muovere i mercati con un post sgrammaticato e poi cambiare la politica commerciale in serata. In un Paese dove la realtà è opzionale, l’unica certezza è questa: Se ti svegli presto, leggi Truth Social, compri quello che ti dice “il tizio con la cravatta rossa”, e poi lui cambia la politica commerciale, non è fortuna. È capitalismo quantistico.
Trump Imparerà Ad Amare il Digital Yuan
“La Guerra delle Valute: come imparai a non preoccuparmi e ad amare il Digital Yuan” di Luciano Di Gregorio, cronista di un mondo che cambia C’era una volta l’America. Letteralmente. Aveva un sogno, una bandiera, e soprattutto una valuta che poteva comprarti tutto: benzina, democrazia, e un SUV con la bandiera sopra. Poi un giorno si svegliò e scoprì che i ponti digitali cinesi erano più veloci dei suoi tweet. Donald Trump, sempre sobrio come un brindisi a Capodanno, ha deciso che era il momento di piantarla con la diplomazia e passare all’arte dell’affronto fiscale. Tariffe del 104% su tutto ciò che arriva dalla Cina: dalla maglietta del dragone al cavo USB che serve a ricaricare l’iPhone con cui postare #MAGA. Ma, sorpresa: Pechino non ha reagito con missili o minacce. Ha semplicemente… codificato. Il Digital Yuan, ovvero il fratello nerd del vecchio renminbi, ora si fa largo nei corridoi del commercio internazionale con l’eleganza di una ballerina su TikTok. Non passa più da New York, non chiede permesso a Londra. Si muove. In sette secondi. E mentre lo Swift ansima come una balena spiaggiata, il One digitale nuota tra ASEAN, Medio Oriente e sei paesi europei che un tempo si vergognavano a dirlo, ma ora ammettono che il dollaro non è poi così cool. Il messaggio è chiaro: se Washington costruisce muri, Pechino stampa QR Code. Altro che Via della Seta: questa è la Via della Silicon Valley cinese, dove ogni click è un colpo al cuore del sistema Bretton Woods. Altro che Vietnam, ora il campo di battaglia è il back-end di un wallet digitale. E mentre il digital yuan si infiltra nei gangli dei mercati globali, l’America si ritrova con una crisi da identity theft: “Chi siamo noi senza il dollaro sovrano?”, si chiede un funzionario della Fed mentre tenta di capire come funziona WeChat Pay. Spoiler: è già tardi. Nel frattempo, nei supermercati USA, un iPhone da $1200 diventa un oggetto di lusso, come il tartufo o l’educazione universitaria. Le aziende americane – abituate a montare prodotti con pezzi cinesi, cacciaviti messicani e slide motivazionali – scoprono che l’autarchia industriale è bella solo nei discorsi elettorali. Ma attenzione: non è che la Cina sia diventata improvvisamente il nuovo Gandhi monetario. È solo più strategica. Sa che oggi le guerre si combattono con reti, pagamenti, standard. Non più con eserciti, ma con algoritmi. E ogni transazione in yuan è un voto contro l’impero della carta verde. La verità è che la multipolarità valutaria non è un film di fantascienza. È un cartellone pubblicitario che recita: “Coming soon to a country near you”. I BRICS lo avevano promesso, e adesso Pechino lo sta installando come fosse l’aggiornamento di sistema di un nuovo mondo. E così, mentre noi discutiamo ancora se il contante vada abolito o se i Bitcoin siano il nuovo oro, il digital yuan è già nei circuiti. Già nelle banche. Già negli accordi. Silenzioso. Inevitabile. Elegantemente autoritario come solo una criptovaluta di Stato può essere. Insomma, siamo entrati nell’era della geopolitica delle app. E forse un giorno i nostri nipoti leggeranno nei libri di scuola (digitali, ovviamente): “Una volta c’era il dollaro. Poi arrivò il One. E nessuno pagò più per aspettare tre giorni un bonifico.” Nel frattempo, il mondo si divide tra chi teme la dedollarizzazione, chi la nega… e chi ha già scaricato l’app del One digitale.
Il grande ritorno del muro… doganale!
Il grande ritorno del muro… doganale! Ovvero come salvare l’economia a colpi di dazio e nostalgia industriale C’era una volta un’America potente, fiera e produttiva, dove le fabbriche sputavano acciaio come draghi patriottici e i jeans si facevano con il sudore del Midwest, non con il risparmio asiatico. Poi arrivò la globalizzazione, con le sue offerte 3×2 e il temibile “Made in China”, e tutto cambiò: gli operai diventarono rider, le fabbriche si trasformarono in loft, e l’unica cosa prodotta in patria era l’indignazione. Ma ecco che dal cielo, in un tripudio di cravatte rosse e tweet impulsivi, scese lui: il Protettore Supremo del Prodotto Nazionale, l’uomo che avrebbe reso grande di nuovo non solo l’America, ma anche i dazi, i confini e i magazzini pieni di frigoriferi patriottici. Donald Trump. Il Robin Hood delle tariffe, che toglieva alle multinazionali per ridare… alle multinazionali con sede in Ohio. La strategia? Semplice. Imporre dazi sui prodotti stranieri per convincere le aziende a tornare in patria. Un po’ come aumentare il prezzo dei voli internazionali sperando che la gente torni a farsi le vacanze a Pomezia. Geniale. E chi se ne frega se poi l’iPhone costa come un rene — almeno il rene è americano. Il concetto chiave è chiaro: meglio un bullone yankee arrugginito che un dispositivo elettronico perfetto ma cinese. E se la signora Maria al mercatino dovrà spendere 150€ invece di 15 per un paio di jeans, che sia! Almeno quei jeans saranno imbevuti di libertà, bandiere e disoccupazione riconvertita. I critici, si sa, non capiscono il genio. Parlano di “rischi di guerra commerciale”, “inflazione”, “isolamento economico”. Ma sono gli stessi che pensano che il protezionismo sia roba del passato. In realtà, è il futuro! Basta rispolverarlo con un po’ di retorica, due slogan e qualche minaccia velata alla Germania. In conclusione, l’America protezionista è un po’ come un vecchio rockettaro che vuole rimettere insieme la band, ma senza sapere che il chitarrista ora vive in Vietnam, il batterista lavora per Amazon, e il bassista è un algoritmo. Ma non importa: con un bel dazio e tanta nostalgia, tutto tornerà come prima. O almeno ci divertiremo a guardare il tentativo.