IL MONDO GUARDA ALTROVE E LA DESTRA ESTREMISTA AUOTORITARIA METTE PAURA ALLE POPOLAZIONI

IL MONDO GUARDA ALTROVE E LA DESTRA ESTREMISTA AUOTORITARIA METTE PAURA ALLE POPOLAZIONI Mentre bambini palestinesi muoiono sotto le bombe, la fame avanza come un’ombra medievale, e le migrazioni si trasformano in tragedie da statistiche tascabili, il mondo civile, democratico e ben stirato… guarda altrove. Letteralmente. Qualcuno guarda Netflix, qualcuno le elezioni europee. Ma senza esagerare. Nel frattempo, il palcoscenico globale si riempie di nuovi volti noti: leader biondo-cenere con mascella autoritaria, donne sorridenti che citano i confini con fervore religioso, e maschi alfa versione vintage, rigorosamente col cuore tricolore, l’inno in tasca e l’indice puntato verso il basso. L’estrema destra – che un tempo usava l’elmetto – oggi si presenta col doppiopetto e la retorica da tutorial YouTube. I leader moderati? Assenti. Forse dispersi nella “zona grigia dell’indignazione tiepida”, dove si organizza un bel convegno ogni due anni per dire: “Non bisogna generalizzare, ma qualcosa andrà fatto”. E così, mentre l’autoritarismo si rifà il look da startup, la popolazione europea si divide tra chi ha paura… e chi ha paura di aver paura. Il mondo, intanto, continua a guardare altrove. Gaza? Troppo complesso. L’Ucraina? Era trending l’anno scorso. Il clima? “Ce ne occuperemo dopo il brunch.” E mentre Handala resta fermo, scalzo, e indignato sul bordo del nostro disinteresse, i talk show discutono se vietare o meno i croissant con marmellata di ciliegia nelle scuole per “motivi identitari”. La destra radicale sale nei sondaggi non perché abbia risposte, ma perché urla più forte di chi cerca domande. Del resto, in un mondo dove il silenzio vale più di mille parole, l’urlo è la nuova poesia. Il futuro? Lo immaginiamo così: popoli che invocano protezione contro le stesse persone che li stanno spaventando, governi che giurano sulla Costituzione e poi la usano come sottobicchiere, e una Terra che piange lacrime di CO₂ mentre noi aggiorniamo la bio con “libero pensatore”. Ma tranquilli, finché c’è un influencer che fa un video commosso, un hashtag temporaneo e una vignetta da condividere, siamo salvi. Almeno finché non votiamo.  

NON VEDO, NON SENTO, NON PARLO, PERCHÉ MI CONVIENE !

Tutto in una notte (o quasi): tra piani, fantasmi e ritorni mistici In una sola manciata di ore l’Italia (e il mondo) si è risvegliata in preda a un groviglio di eventi così intricati da far impallidire la sceneggiatura di una telenovela post-apocalittica. Proviamo a mettere ordine, se non altro per sport, ché la coerenza oggi è facoltativa. Israele prepara un piano per Gaza, firmato Netanyahu ma timbrato “si parte dopo la visita di Trump”, come se il Medio Oriente fosse un villaggio vacanze in attesa dell’animazione americana. L’Unione Europea borbotta “non è il momento”, l’ONU suggerisce “due stati, due popoli”, ma pare che nessuno trovi il modo di rispondere alla domanda fondamentale: “quali stati? quali popoli?”. Nel frattempo, la Premier italiana gioca a Nascondino Istituzionale, e vince sempre: non si trova. Sullo sfondo, la proposta di un referendum sulla cittadinanza, che come tutti i referendum italiani si preannuncia come una grande prova di… astensione. Italiani vivi, votanti forse. Ma solo se non c’è Sanremo in contemporanea. In Vaticano, conclave in arrivo. L’attesa cresce come l’umidità, i cardinali discutono di tutto tranne che del tema centrale, come nei migliori consigli di condominio. L’obbligo di segretezza è rigoroso: niente spoiler su chi vince, anche se su Twitter si vocifera un outsider gesuita con simpatie per TikTok. Mattarella, nel frattempo, si concede una visita privata alla tomba di San Francesco, dove – secondo fonti non verificate – avrebbe sussurrato alla lastra marmorea: “Francesco, ma tu come facevi a mantenere la pace coi lupi?”. Nel mondo reale, invece, il sangue continua a scorrere sul lavoro: operai morti a Vicenza, Napoli e Frosinone. Tragedie che il telegiornale racconta tra la pubblicità del detersivo e l’oroscopo, come se l’Italia fosse diventata la versione industriale di Final Destination. Nel frattempo, parte lo sciopero delle ferrovie, con fasce di garanzia da interpretare come oracoli. Chi prende il treno oggi ha due possibilità: o arriva puntuale o entra nella leggenda. A Verona, in un sorprendente colpo di scena giudiziario, il Tribunale stabilisce 100 euro di multa al giorno per chi non paga gli alimenti. Un modo per dire che, in fondo, la legge funziona… almeno finché c’è credito sul bancomat. Chiudiamo con lo sport, dove tutto diventa più epico: Champions League, San Siro, Inzaghi e il suo piano anti-Yamal, che probabilmente prevede una doppia marcatura e una benedizione papale. Il Milan intanto vince in trasferta, mentre nel tennis si registra il ritorno del “Re Sinneri” (così ribattezzato dal culto laico nazionale). Primo allenamento a Foro Italico, tutto esaurito. Si vocifera che per un posto in tribuna qualcuno abbia venduto un rene e l’abbonamento a Netflix. Mentre il mondo brucia, l’Italia suona il violino sul ponte mediatico. E la realtà, come sempre, resta a guardare – sbigottita e senza biglietto.

Italia 2025: Cronaca di una Repubblica Immaginaria

Italia 2025: Cronaca di una Repubblica Immaginaria C’era una volta un Paese dove le cose andavano male, ma nessuno osava dirlo. Un luogo magico dove le buste paga erano cave come le promesse elettorali, l’inflazione saliva più dell’autostima di certi ministri, e le bollette diventavano romanzi d’orrore a puntate mensili. Questo Paese, incredibilmente, esiste davvero. Si chiama Italia. Ma non preoccupatevi: “va tutto bene”. L’economia? È solo una percezione Nel 2021 con 1.000 euro ci si comprava dignità. Oggi con gli stessi soldi si compra poco più di un carrello vuoto e un vago senso di colpa. Ma tranquilli: ci sono i bonus. Non risolvono niente, ma fanno molto rumore quando li annunci. Il Governo, dal canto suo, ha adottato la strategia del “mantra positivo”: se dici tre volte al giorno che l’economia cresce, forse alla quarta lo crede anche il tuo portafogli. I salari sono stabili. Peccato che siano fermi. In Italia, il salario minimo è ancora un’ipotesi filosofica. Ogni tanto appare nei dibattiti televisivi come un unicorno in giacca e cravatta, ma poi sparisce nei meandri del “non c’è copertura finanziaria”. Peccato che a mancare non sia solo la copertura, ma proprio il letto. Tasse: tagliate, abbassate, ridotte… a parole Ogni anno un politico annuncia un taglio delle tasse. Ma come le cipolle, più tagli e più piangi. Salvini giura che abbasserà il prelievo fiscale. Poi giura che si fida della BCE. Poi giura che non ha giurato. Giorgetti, invece, ci ricorda che le armi costano e la pace fiscale può attendere. Per ora, abbiamo solo la pace dei sensi economici. Bollette e dazi: l’unico vero aumento bipartisan Se c’è una cosa che unisce maggioranza e opposizione, è la capacità di non trovare soluzioni quando le bollette salgono. Intanto, La Russa commenta i dazi come se fossero una competizione virile: “chi ce l’ha più duro vince”. Ma nel frattempo, a perderci sono le famiglie, che scoprono con sgomento che accendere la luce è diventato un gesto di lusso da alta borghesia. Povertà lavorativa: lavora e sarai… comunque povero Una volta si diceva “chi non lavora non mangia”. Ora si lavora, si lavora tanto, e si digiuna lo stesso. La nuova frontiera è la povertà dignitosa, un’espressione che suona bene nei convegni ma che in cucina produce solo pasta aglio e olio. A giorni alterni. Meloni e il selfie globale Giorgia Meloni si affaccia sorridente accanto a Trump, Von der Leyen e chiunque abbia una fotocamera accesa. La politica estera è diventata un set fotografico dove la regola d’oro è “non importa cosa fai, ma con chi ti fai vedere”. Il risultato? La diplomazia è lasciata al Vaticano, che almeno ha più esperienza con le conversioni. Il Paese delle Meraviglie Narrative Produzione industriale in calo? Non fa notizia. Emigrazione in aumento? Vuol dire che esportiamo talenti. Inflazione galoppante? No, è “transitoria”. L’Italia ha perfezionato l’arte del trucco: non dei conti, ma delle percezioni. La crisi non esiste se nessuno la nomina. Basta cambiare l’inquadratura e anche un crollo del PIL può sembrare un tuffo carpiato verso il futuro. ⸻ Conclusione: Sorridi, sei in Italia In un Paese dove i numeri piangono e i discorsi ridono, il problema non è tanto il declino, ma quanto elegantemente viene negato. La realtà, ormai, è una variabile narrativa. Basta dirlo con convinzione: “Abbiamo risolto la povertà!” E se qualcuno osa chiedere “come?”, si risponde con un sorriso e un selfie. D’altronde, se non puoi cambiare le cose, almeno raccontale meglio. fammi una vignetta caricaturale della meloni che dice ” Credetemi la mia è una vera Favola !”

L’Italia e la Politica del “Facciamo Finta che Va Tutto Bene”

L’Italia e la Politica del “Facciamo Finta che Va Tutto Bene” Se c’è una cosa che gli italiani hanno imparato negli ultimi anni, è che la realtà si può piegare. Non i salari, quelli restano rigidi come il marmo di Carrara, ma la narrazione sì: quella si plasma, si modella, si trucca meglio di una star su Instagram. Prendiamo l’inflazione: nel 2021 con 1.000 euro si aveva un potere d’acquisto che oggi equivale a 920 euro. In quattro anni sono stati persi 80 euro al mese, quasi uno stipendio all’anno. Gli 80 euro mancanti? Spariti, come le promesse elettorali dopo il voto. Il Governo e la Magia delle Dichiarazioni Alla domanda “Cosa ha fatto il governo per i salari?”, la risposta è semplice: ha fatto la realtà italiana. Un capolavoro di tautologia, degno dei migliori filosofi da talk show. In pratica, si è pensato che bastasse dichiarare “va tutto bene” per farlo diventare vero. Peccato che l’inflazione non ascolti i comunicati stampa e i salari non si alzino con le rassicurazioni, ma solo con i fatti. Le riduzioni della tassazione ci sono state, ma non sono bastate a contrastare la stagnazione dei salari, che ha cause profonde e complesse. La politica del “farla facile” non paga, perché la verità emerge e spesso è dolorosa: l’84% degli italiani sente nelle proprie tasche il peso dell’inflazione. Tasse: Promesse, Sondaggi e la Sindrome di San Tommaso Salvini giura che abbassare le tasse è la sua priorità, così come della Lega e del governo. Gli italiani, però, sono gente concreta: secondo un sondaggio Ipsos, l’86% pensa di pagare le stesse tasse di prima, il 6% crede di pagarne meno e il restante 8% probabilmente ha smesso di leggere i bollettini fiscali per non rovinarsi la digestione. Il governo, intanto, si consola con la massima “meglio una promessa oggi che una riduzione domani”. Giorgetti, ministro dell’Economia, ha più volte sottolineato che gli equilibri di bilancio sono difficili e che bisognerà spendere per gli armamenti, il che rende complicata una vera riduzione delle tasse. Per aumentare i salari serve una seria politica industriale ed economica che aiuti le imprese a essere più produttive. Dazi, Bollette e la Gara a Chi Ce l’ha Più… Lungo Ignazio La Russa, con la consueta eleganza istituzionale, spiega la guerra dei dazi come una gara a chi ce l’ha più duro, più lungo, più forte. Nel frattempo, le bollette aumentano: nei primi tre mesi del 2025 si prevedono 190 euro in più per luce e gas e 45 euro in più per la spesa alimentare. Ma tranquilli: la soluzione è sempre dietro l’angolo, basta non girare troppo l’angolo, che poi si scopre che dietro c’è solo un altro aumento. L’energia in Italia costa più che in altri paesi, pesando sulla produzione e sui costi delle imprese. Le imprese, in molti casi, potrebbero aumentare i salari, ma il governo dovrebbe aiutarle e impegnarle su questa strada. Povertà: Lavorare per Restare Poveri I dati Istat sono chiari: oggi avere un lavoro a tempo pieno non basta più per non essere poveri. Un tempo si diceva “lavorare nobilita l’uomo”, oggi “lavorare impoverisce l’uomo”, ma almeno lo fa con dignità. L’aumento della povertà è un dramma per molte famiglie italiane. Il governo suggerisce una seria politica industriale, ma per ora si accontenta di una seria politica di annunci. Meloni, Trump e la Sindrome del Selfie Diplomatico Giorgia Meloni si sente in sintonia con Donald Trump. Un progetto politico per certi versi non dissimile, dicono. Il cartello 57 riassume la strategia: spendere negli Stati Uniti i fondi per la difesa, aumentare le importazioni di gas liquido e ridurre le tasse per le big tech americane. Eppure, pochi anni fa, Meloni parlava di web tax al 3% per i colossi del web, sottolineando come anche la sinistra difendesse gli interessi italiani solo quando si trattava di tasse. Peccato che la politica dei dazi abbia messo d’accordo tutti gli economisti: fa male a chi li impone e a chi li subisce. Ma vuoi mettere la soddisfazione di sentirsi “grandi” almeno nelle foto di gruppo? D’altronde, se non puoi cambiare la realtà, almeno cambia l’inquadratura. La politica trumpiana viene definita sbagliata sia sul piano economico che su quello generale, perché divisiva. Vertici, Meriti e la Magia del “Qualche Merito lo Avrò Avuto” Quando a Roma arrivano i potenti del mondo, l’organizzazione è perfetta, la città è bellissima e l’immagine della capitale fa il giro del mondo. Tuttavia, dal punto di vista diplomatico, Meloni “non ha toccato palla”: il Vaticano ha gestito la diplomazia, mentre Meloni rivendica comunque “qualche merito”, come dichiarato sul Corriere della Sera. In Italia, il merito è come la panna sulla torta: anche se non c’è, basta dirlo e tutti fanno finta di sentirne il sapore. Secondo Renzi, la produzione industriale è negativa da 25 mesi, 191.000 italiani sono emigrati all’estero con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente, e le bollette continuano a salire. Renzi sottolinea che spesso si attribuiscono meriti diplomatici a Meloni che non le spettano, come nel caso dell’incontro tra Trump e von der Leyen, che si conoscevano già da tempo. Padellaro osserva che forse è meglio non mettersi troppo in mostra che rischiare una brutta figura, e che il peso dell’Italia sulla scena internazionale resta comunque limitato. Conclusione: L’Arte Italiana del Fare Finta In definitiva, l’Italia resta maestra nell’arte del “facciamo finta che va tutto bene”. I salari calano, le tasse restano, le bollette salgono, la povertà aumenta e la produzione industriale è in calo, ma la narrazione è sempre ottimista. E se la realtà bussa alla porta, basta non aprire. O, meglio ancora, dichiarare che non era nessuno.

25 Aprile: Il pericoloso complotto del “pane antifascista”

25 Aprile: Il pericoloso complotto del “pane antifascista” In un Paese dove l’aria è sempre più rarefatta (e non solo per l’inquinamento), un pericolo oscuro incombe sulle nostre strade: il pane. Ma non un pane qualunque. No. È il pane antifascista. Croccante fuori, resistente dentro. Come una staffetta partigiana, ma con i semi di papavero. È successo davvero: a Escoli Piceno, una temibile panettiera ha avuto l’ardire di affiggere uno striscione con su scritto “25 aprile, buono come il pane, bello come l’antifascismo”. Immediate le forze speciali in borghese, inviate a reprimere questa insidiosa minaccia all’ordine pubblico. Tre agenti contro una baguette. Una scena epica degna di un kolossal. Mentre Lorenza, la panettiera sovversiva, rivendicava con orgoglio il diritto a impastare lievito e libertà, a Dongo, i nostalgici del ventennio facevano il saluto romano indisturbati, forse nella speranza che qualcuno servisse loro un panino alla marcia su Roma. Nel frattempo, il Governo commenta poco o nulla. Alcuni sostengono che stiano ancora cercando su Google se “antifascismo” è un ingrediente regolato dal Ministero dell’Agricoltura. Altri insinuano che Giorgia Meloni, dopo il post su Facebook contro il regime fascista, stia preparando un comunicato vocale in cui dice “non esageriamo, però eh”. E non finisce qui: alla Spezia, per non turbare sensibilità delicate, si è riscritta “Fischia il Vento” in versione family-friendly: “Soffia la brezza, amore e dolcezza / in questo bel dì / lontano il brutto e cattivo… ismo”. Insomma, in un’Italia dove l’antifascismo viene trattato come un optional fastidioso, il 25 aprile si è trasformato in una strana giornata: da un lato fiumi di persone a ricordare chi ha dato la vita per la libertà, dall’altro una panettiera sotto osservazione come fosse il capo di una cellula sovversiva armata di rosette. Che dire? Per fortuna c’è ancora chi difende il diritto a dire che la libertà è “buona come il pane”, anche se ormai ci tocca farlo col certificato medico in tasca e il permesso del questore.

Il 25 aprile fa ancora paura. Meglio vietarlo, sa di libertà

Il 25 aprile fa ancora paura. Meglio vietarlo, sa di libertà C’è una frase in quel manifesto del 25 aprile che racconta l’Italia di oggi meglio di mille editoriali: “Lo vieterei… ma sa troppo di libertà.” Già, il problema è proprio quello. Ottant’anni dopo la Liberazione, la libertà è ancora vista come un lusso, una concessione, una cosa da somministrare a dosi controllate — come si fa con un medicinale che può dare effetti collaterali. Mentre il paese si divide tra chi porta il fiore sulla tomba di un Papa e chi porta la bandiera della Resistenza nelle piazze, una parte del potere politico invita alla “sobrietà”. Non per rispetto, sia chiaro, ma per fastidio. Perché il 25 aprile ricorda che la libertà nasce dalla disobbedienza, non dalla disciplina. Che i partigiani non chiedevano permesso. Che l’antifascismo non era “conformità”, ma rischio, scelta, rottura. Così, oggi, c’è chi vorrebbe mettere i tappi alle orecchie quando si canta Bella Ciao e chi storce il naso di fronte a un pugno fatto di pane. Eppure è tutto lì: la libertà è semplice come il pane, necessaria come l’aria, ma fa paura a chi sogna un popolo muto, docile, rassegnato. La vignetta del vecchietto incatenato davanti al manifesto è una fotografia crudele. Parla di un’Italia che ha barattato la memoria con il comfort, la dignità con il disinteresse, la storia con la propaganda. Un’Italia che ha paura di guardare il suo passato perché rischierebbe di vedere il suo presente per quello che è: più vicino alla catena che al pane. Vietarlo, il 25 aprile? Magari. Così almeno si ammetterebbe che la libertà è ancora un problema irrisolto.

SOBRIETÀ – 25 Aprile a bassa voce: la Liberazione in modalità silenziosa

SOBRIETÀ – 25 Aprile a bassa voce: la Liberazione in modalità silenziosa Roma, 25 aprile 2025 – Quest’anno l’Italia ha celebrato l’80° anniversario della Liberazione con il volume abbassato a “modalità non disturbare”, come suggerito gentilmente dal governo. L’invito alla “sobrietà” era chiaro: ricordare la Resistenza sì, ma senza esagerare con entusiasmo, ché c’è lutto nazionale per Papa Francesco. Alla cerimonia ufficiale, il premier Giorgia Meloni ha deposto una corona di fiori davanti al Milite Ignoto, rigorosamente senza applausi, senza fanfare e possibilmente senza emozioni. La banda musicale ha eseguito l’inno nazionale in versione “pianissimo”, suscitando qualche dubbio tra i presenti: qualcuno ha pensato si trattasse di una prova tecnica. In tutta Italia, i sindaci si sono dati da fare per reinterpretare il concetto di sobrietà: a Prato “Bella Ciao” è stata sostituita da “Bella… Shh!”, mentre a Milano Beppe Sala ha chiesto lumi al governo su cosa intendesse per “sobrio”. Dopo ore di riflessione collettiva, è emerso che “sobrio” significa “qualcosa che sembra un funerale, ma con un leggero sorriso di circostanza”. Le polemiche politiche non sono mancate. Pierluigi Bersani, dopo aver letto l’invito alla sobrietà, ha dichiarato: “Mi vengono i brividi… sarà che ho abbassato troppo il riscaldamento in segno di rispetto”. Angelo Bonelli ha ribadito che “il 25 aprile non è mica una festa in discoteca”, anche se alcuni cittadini, avendo interpretato male l’appello alla sobrietà, si sono presentati alle celebrazioni vestiti da buttafuori. Nel frattempo l’ANPI, armata di pazienza e fazzoletti tricolori, ha confermato tutte le manifestazioni, promettendo “marce silenziose, ma con una coreografia sobria al massimo: tipo camminare composti, senza saltare sulle note di Bella Ciao”. Alcuni comuni hanno persino ideato la “Silent Liberation Walk”, una marcia antifascista con cuffiette wireless, per ascoltare Bella Ciao individualmente, senza disturbare chi passava. Insomma, il 25 aprile 2025 passerà alla storia come l’anno in cui l’Italia ha ricordato la Libertà… a bassa voce. Ma, come dicono i saggi, “meglio un 25 aprile sobrio che un 25 aprile senza memoria”.

La sfilata degli addolorati per finta: funerale di Papa Francesco, edizione “photo opportunity”

Che spettacolo! Altro che Conclave: il vero evento è stata la sfilata internazionale ai funerali di Papa Francesco. Un red carpet globale di coscienze (quasi) pulite, di teste basse e occhi lucidi — alcuni autentici, molti ben idratati da visagisti esperti. È l’ultimo trend del potere: mostrare cordoglio per colui che fino a ieri si cercava di ignorare, correggere, contraddire. Un po’ come piangere l’amico ambientalista dopo avergli parcheggiato il SUV sul prato. Il Papa che disturbava — ma adesso è un brand Francesco era scomodo. Lo è stato fino all’ultimo: parlava di poveri ai potenti, di migranti a chi costruiva muri, di pace a chi firmava contratti per nuovi droni. Non benediva i loro proclami, li smascherava. E adesso? Ora è perfetto. Morto. Silenzioso. Finalmente “utilizzabile”. Tutti allineati, quindi, con lo sguardo contrito e il tweet pronto: “Profondamente addolorato per la perdita di un grande uomo di pace. #PapaFrancesco #LeadershipMorale”. (Traduzione: “Per fortuna adesso non ci bacchetta più”). Il lutto a uso e consumo dei sondaggi È incredibile quante conversioni strategiche avvengano davanti a una bara vaticana. Leader notoriamente laici riscoprono la spiritualità. Presidenti che amano i porti chiusi si dicono “toccati dal messaggio di accoglienza del Santo Padre”. E autocrati nostalgici del manganello elogiano “la sua apertura al dialogo”. Il tutto, naturalmente, con staff fotografico al seguito. Al funerale di Papa Francesco non si è visto solo dolore: si è vista l’eleganza della reinvenzione morale a favore di telecamera. Il pentimento non è richiesto, basta un buon comunicato stampa. Francesco, il disturbatore beatificato in 280 caratteri Il Pontefice che parlava di “economia che uccide” e “mondo senza umanità” è stato promosso — post mortem — a “simbolo universale di speranza” da gente che non ha mai letto una sua enciclica (e che se l’avesse letta, l’avrebbe definita “marxismo spirituale”). Così funziona il potere: prima lo accusi di populismo, poi, quando muore, lo usi come un santino da mostrare all’ONU. Applausi, inchini e ipocrisia in alta definizione C’era tutto: il pathos liturgico, la compostezza solenne, il profumo d’incenso mescolato al marketing. C’erano quelli che hanno fatto della fede un’arma elettorale, e quelli che vedono la Chiesa solo come un interlocutore geopolitico. Tutti vestiti a lutto, tutti pronti a sorridere davanti all’obiettivo dopo il requiem. Francesco non avrebbe gradito. Ma probabilmente avrebbe sorriso lo stesso, con quell’ironia gentile e disarmante, mentre osservava — dall’alto o da dentro — la grande passerella della coerenza apparente.

Rai … al Servizio Privato Del Governo, “Si Contenghino i Giornalisti !” Come Disse Un Famoso Politico.

Rai … Al Servizio Privato Del Governo, “Si Contenghino I Giornalisti !” Come Disse Un Famoso Politico. C’è un nuovo reality show in onda alla Rai. Non si chiama “L’Isola dei Famosi”, ma “L’Archivio dei Giornalisti”. Regole semplici: ogni filmato girato da un autore RAI — anche quelli che toccano i nervi scoperti del potere — va consegnato al produttore, pardon, all’editore, anzi no: al governo. Benvenuti nel Grande Fratello dell’informazione pubblica. Un reality senza nomination, perché tanto l’unico eliminato è il giornalismo. Sigfrido Ranucci, volto storico di Report, l’ha detto senza giri di parole: “È la fase più buia della Rai in 35 anni.” Ed è difficile dargli torto. Una circolare dell’amministratore delegato (nominato dal governo, per chi si fosse distratto) obbliga alla “tracciabilità dei filmati”, vale a dire: “tu girali pure, poi ce li guardiamo noi”. Non si tratta di gestione d’archivio. È sorveglianza redazionale. Altro che vigilanza pluralista. Siamo alla pre-produzione ideologica. L’informazione sotto tutela (del potere) Siamo al paradosso: la Rai — servizio pubblico — vuole l’accesso illimitato a tutto ciò che viene girato, comprese le fonti, le inchieste, i materiali grezzi. Non lo chiede un giudice. Lo chiede l’azienda. E l’azienda, come ormai è chiaro, risponde politicamente. Vogliamo essere chiari? Questa è una minaccia diretta al principio costituzionale della libertà di stampa. Una pistola formale puntata alla tempia dell’autonomia giornalistica. Il problema non è solo legale. È culturale, etico, editoriale. È un cambio di paradigma: dal giornalismo come strumento di controllo del potere, al giornalismo controllato dal potere stesso.  Ossessione? No, dovere. C’è chi accusa Report di essere “ossessivo” verso il governo, e in particolare verso Giorgia Meloni. Bene. Domanda: quale altra funzione ha il giornalismo d’inchiesta, se non disturbare il potere? Un giornalismo che non disturba non è imparziale, è inutile. E chi parla di “ossessione” confonde l’inchiesta con l’insinuazione, il rigore con il livore, la vigilanza con la vendetta. Che poi, detta tra noi: se le inchieste fanno male, il problema non è chi le fa. È chi le subisce. Giornalismo sotto processo (anzi, no) Ranucci lo dice chiaramente: “Le accuse di manipolazione? Archiviate. Sempre.” Perché i giornalisti, a differenza di certi politici, vanno davanti ai giudici. E vincono. E allora, cosa resta? La narrazione tossica. La delegittimazione sistematica. La solita macchietta del “giornalista ideologico” contrapposto al potere “sobrio e trasparente”. Peccato che sia una bufala. E che questa bufala stia diventando strategia di comunicazione istituzionale. La Rai come proprietà privata (dello Stato) La verità è che la RAI oggi non è più un servizio pubblico, ma un asset di governo. Un’azienda editoriale a partecipazione politica diretta. Con un amministratore delegato scelto dall’esecutivo, e con telegiornali sempre più indistinguibili dai comunicati stampa ministeriali. A chi giova questa trasformazione? A chi vorrebbe un Paese dove il pluralismo si pratica solo in campagna elettorale, e il resto del tempo si obbedisce. A chi vuole che i giornalisti smettano di cercare la verità e inizino a raccontare una versione autorizzata dei fatti. ❗ Una domanda per tutti Chi sarà il prossimo? Chi sarà il prossimo autore, regista, cronista o freelance che dovrà consegnare i propri appunti, i propri contatti, i propri materiali, solo perché ha avuto l’ardire di raccontare qualcosa che disturbava? E soprattutto: chi avrà ancora il coraggio di parlare, se sa che il girato finirà in mano a chi dovrebbe essere oggetto dell’inchiesta? Questo non è solo un attacco al giornalismo. È un attacco all’idea stessa di democrazia.

LA LIBERTA’ E’ IN OFFERTA SOLO PER CHI SE LA PUO’ PERMETTERE … QUESTA E’ L’ITALIA CHE VUOI ?

La Libertà è in Offerta: Solo per Chi Se la Può Permettere di Luciano, cittadino non ancora scaduto C’era una volta la libertà. Bella, luminosa, con un po’ di polvere sulle spalle perché, si sa, era stata usata molto durante le rivoluzioni, i movimenti civili, le lotte per i diritti. Poi qualcuno — con un megafono, un account X e un cappellino rosso — ha deciso che la libertà era troppo democratica, troppo distribuita. E ha pensato bene di metterla in vendita. Oggi la libertà è come l’olio extravergine al supermercato: in offerta, ma solo per chi ha la tessera. Chi non ce l’ha? Gli immigrati, i poveri, i precari, quelli che non parlano abbastanza forte da sovrastare le urla di chi si crede libero solo perché può urlare. Libertà di togliere libertà È il nuovo modello occidentale: libertà di escludere, libertà di odiare, libertà di rimandare indietro. E quando dici: “Scusa ma questo non è un po’ fascista?” Ti rispondono: “È la mia opinione”. Come se l’opinione fosse un pass per sospendere la Costituzione. La libertà, ci dicono, è difendere la patria dalla minaccia esterna: che sia un barcone, una famiglia rom, o una tempesta di neve fabbricata dai democratici in un laboratorio segreto dell’Iowa (sì, è successo davvero). I dazi sulla realtà Nel frattempo Trump, l’uomo che ha avuto un incontro ravvicinato con la candeggina, è tornato. Ha alzato i dazi, non sui prodotti, ma sulla realtà. Ora ogni verità costa il doppio. Se vuoi sapere quant’era piena davvero la piazza del suo comizio, paghi. Se vuoi sapere se la youtuber che ha parlato con lui è una fonte attendibile o una fan della neve radioattiva, paghi. In Italia, intanto, Bruno Vespa tranquillizza i mercati con la grazia di una tisana al bromuro: “La pizza aumenterà di un dollaro.” E i mercati, per tutta risposta, crollano come uno sgabello sotto un elettore indeciso. I social: nuova sede del Ministero della Verità Alternativa Sui social, nel frattempo, si combatte una guerra senza fronti né regole: verità contro narrazioni, dati contro “sensazioni”, scienza contro “me l’ha detto mio cugino su Telegram”. La democrazia è diventata una diretta Instagram, la realtà un filtro bellezza. E tu, se osi dire: “Aspetta, ma questa cosa è falsa…”, vieni bannato. Per violazione degli standard della nuova libertà: non contraddire chi grida più forte. La paura come valuta Oggi il PIL si calcola in ansia. Un migrante vale due punti percentuali in meno alle elezioni, ma sei in più nei sondaggi. Un blackout diventa il segnale dell’invasione. Una donna che chiede diritti è “una radical chic globalista”. Un ragazzo che protesta è “un pericolo per l’ordine pubblico”. Il futuro? È una parola che si usa solo al passato. Conclusione: il grande inganno La libertà è diventata un prodotto di marketing. “Difendila!” dicono… mentre la smontano pezzo per pezzo. E tu, che ancora credi nella libertà vera, ti senti spaesato. Ti guardi attorno e ti chiedi: “Ma sono io l’ingenuo? O sono loro che mentono così bene da sembrare veri?” E allora, ecco la verità imprescindibile, quella nuda e senza hashtag: La libertà o è per tutti, o non è per nessuno. Se serve a costruire muri, non è libertà. Se serve a zittire chi pensa diverso, non è libertà. Se ha paura della realtà, non è libertà. È solo un modo elegante di dire prepotenza. E se domani vi venderanno la libertà con lo sconto, diffidate: potrebbe essere scaduta.