Pare che il futuro dell’Europa non sia fatto di ricerca, scuola o sanità, ma di carri armati con inserti in fibra di carbonio e missili biodegradabili. A suggerircelo è Giuseppe Conte, ex premier, oggi filosofo pentastellato dell’equilibrio geopolitico e dell’asimmetria economico-militare. Intervistato, ha lanciato un modesto appello al buonsenso europeo, rivolgendosi direttamente a Merz, leader tedesco che pare intenzionato a trasformare la Germania da locomotiva economica a cingolato blindato continentale. “Caro Merz,” dice Conte, “voi avete imposto l’austerità a noi italiani per anni e poi, in una notte di luna piena, cambiate la Costituzione e stanzionate mille miliardi per il riarmo. Che fate, riconvertite la Volkswagen in fabbrica di panzer elettrici? Ma almeno mettete il bonus rottamazione per i Leopard usati!” Conte, giurista ma anche spirito guida della moderazione strategica, si preoccupa: “Sì, certo, serve la deterrenza, ma qui stiamo passando dal deterrente all’economia di guerra come se fosse una dieta detox. E poi — domanda retorica che gela lo studio — cosa succede se l’AfD, dati al 26%, arriva al governo e si ritrova a gestire questa superpotenza armata fino ai denti? Un piccolo déjà vu weimariano…” Nel frattempo, in Italia, la Meloni — accusata di aver firmato qualsiasi cosa le abbiano messo davanti a Bruxelles purché avesse una bandierina e la parola “sovranità” — si ritrova con i dati Istat che parlano chiaro: consumi giù, economia giù, perfino il morale del carrello della spesa giù. Conte, che rifiuta le etichette di “antimilitarista”, propone un’altra visione per l’Europa: un continente che investa in scuole, ricerca, lavoro. Insomma, una potenza educativa, non esplosiva. Ma l’Europa sembra più orientata verso la strategia del “pugno di ferro con guanto di ghisa”. Mentre Berlino punta ai caccia stealth, Roma si accontenterebbe di un carrello pieno e una Costituzione ancora intatta.
NON VEDO, NON SENTO, NON PARLO, PERCHÉ MI CONVIENE !
Tutto in una notte (o quasi): tra piani, fantasmi e ritorni mistici In una sola manciata di ore l’Italia (e il mondo) si è risvegliata in preda a un groviglio di eventi così intricati da far impallidire la sceneggiatura di una telenovela post-apocalittica. Proviamo a mettere ordine, se non altro per sport, ché la coerenza oggi è facoltativa. Israele prepara un piano per Gaza, firmato Netanyahu ma timbrato “si parte dopo la visita di Trump”, come se il Medio Oriente fosse un villaggio vacanze in attesa dell’animazione americana. L’Unione Europea borbotta “non è il momento”, l’ONU suggerisce “due stati, due popoli”, ma pare che nessuno trovi il modo di rispondere alla domanda fondamentale: “quali stati? quali popoli?”. Nel frattempo, la Premier italiana gioca a Nascondino Istituzionale, e vince sempre: non si trova. Sullo sfondo, la proposta di un referendum sulla cittadinanza, che come tutti i referendum italiani si preannuncia come una grande prova di… astensione. Italiani vivi, votanti forse. Ma solo se non c’è Sanremo in contemporanea. In Vaticano, conclave in arrivo. L’attesa cresce come l’umidità, i cardinali discutono di tutto tranne che del tema centrale, come nei migliori consigli di condominio. L’obbligo di segretezza è rigoroso: niente spoiler su chi vince, anche se su Twitter si vocifera un outsider gesuita con simpatie per TikTok. Mattarella, nel frattempo, si concede una visita privata alla tomba di San Francesco, dove – secondo fonti non verificate – avrebbe sussurrato alla lastra marmorea: “Francesco, ma tu come facevi a mantenere la pace coi lupi?”. Nel mondo reale, invece, il sangue continua a scorrere sul lavoro: operai morti a Vicenza, Napoli e Frosinone. Tragedie che il telegiornale racconta tra la pubblicità del detersivo e l’oroscopo, come se l’Italia fosse diventata la versione industriale di Final Destination. Nel frattempo, parte lo sciopero delle ferrovie, con fasce di garanzia da interpretare come oracoli. Chi prende il treno oggi ha due possibilità: o arriva puntuale o entra nella leggenda. A Verona, in un sorprendente colpo di scena giudiziario, il Tribunale stabilisce 100 euro di multa al giorno per chi non paga gli alimenti. Un modo per dire che, in fondo, la legge funziona… almeno finché c’è credito sul bancomat. Chiudiamo con lo sport, dove tutto diventa più epico: Champions League, San Siro, Inzaghi e il suo piano anti-Yamal, che probabilmente prevede una doppia marcatura e una benedizione papale. Il Milan intanto vince in trasferta, mentre nel tennis si registra il ritorno del “Re Sinneri” (così ribattezzato dal culto laico nazionale). Primo allenamento a Foro Italico, tutto esaurito. Si vocifera che per un posto in tribuna qualcuno abbia venduto un rene e l’abbonamento a Netflix. Mentre il mondo brucia, l’Italia suona il violino sul ponte mediatico. E la realtà, come sempre, resta a guardare – sbigottita e senza biglietto.
Italia 2025: Cronaca di una Repubblica Immaginaria
Italia 2025: Cronaca di una Repubblica Immaginaria C’era una volta un Paese dove le cose andavano male, ma nessuno osava dirlo. Un luogo magico dove le buste paga erano cave come le promesse elettorali, l’inflazione saliva più dell’autostima di certi ministri, e le bollette diventavano romanzi d’orrore a puntate mensili. Questo Paese, incredibilmente, esiste davvero. Si chiama Italia. Ma non preoccupatevi: “va tutto bene”. L’economia? È solo una percezione Nel 2021 con 1.000 euro ci si comprava dignità. Oggi con gli stessi soldi si compra poco più di un carrello vuoto e un vago senso di colpa. Ma tranquilli: ci sono i bonus. Non risolvono niente, ma fanno molto rumore quando li annunci. Il Governo, dal canto suo, ha adottato la strategia del “mantra positivo”: se dici tre volte al giorno che l’economia cresce, forse alla quarta lo crede anche il tuo portafogli. I salari sono stabili. Peccato che siano fermi. In Italia, il salario minimo è ancora un’ipotesi filosofica. Ogni tanto appare nei dibattiti televisivi come un unicorno in giacca e cravatta, ma poi sparisce nei meandri del “non c’è copertura finanziaria”. Peccato che a mancare non sia solo la copertura, ma proprio il letto. Tasse: tagliate, abbassate, ridotte… a parole Ogni anno un politico annuncia un taglio delle tasse. Ma come le cipolle, più tagli e più piangi. Salvini giura che abbasserà il prelievo fiscale. Poi giura che si fida della BCE. Poi giura che non ha giurato. Giorgetti, invece, ci ricorda che le armi costano e la pace fiscale può attendere. Per ora, abbiamo solo la pace dei sensi economici. Bollette e dazi: l’unico vero aumento bipartisan Se c’è una cosa che unisce maggioranza e opposizione, è la capacità di non trovare soluzioni quando le bollette salgono. Intanto, La Russa commenta i dazi come se fossero una competizione virile: “chi ce l’ha più duro vince”. Ma nel frattempo, a perderci sono le famiglie, che scoprono con sgomento che accendere la luce è diventato un gesto di lusso da alta borghesia. Povertà lavorativa: lavora e sarai… comunque povero Una volta si diceva “chi non lavora non mangia”. Ora si lavora, si lavora tanto, e si digiuna lo stesso. La nuova frontiera è la povertà dignitosa, un’espressione che suona bene nei convegni ma che in cucina produce solo pasta aglio e olio. A giorni alterni. Meloni e il selfie globale Giorgia Meloni si affaccia sorridente accanto a Trump, Von der Leyen e chiunque abbia una fotocamera accesa. La politica estera è diventata un set fotografico dove la regola d’oro è “non importa cosa fai, ma con chi ti fai vedere”. Il risultato? La diplomazia è lasciata al Vaticano, che almeno ha più esperienza con le conversioni. Il Paese delle Meraviglie Narrative Produzione industriale in calo? Non fa notizia. Emigrazione in aumento? Vuol dire che esportiamo talenti. Inflazione galoppante? No, è “transitoria”. L’Italia ha perfezionato l’arte del trucco: non dei conti, ma delle percezioni. La crisi non esiste se nessuno la nomina. Basta cambiare l’inquadratura e anche un crollo del PIL può sembrare un tuffo carpiato verso il futuro. ⸻ Conclusione: Sorridi, sei in Italia In un Paese dove i numeri piangono e i discorsi ridono, il problema non è tanto il declino, ma quanto elegantemente viene negato. La realtà, ormai, è una variabile narrativa. Basta dirlo con convinzione: “Abbiamo risolto la povertà!” E se qualcuno osa chiedere “come?”, si risponde con un sorriso e un selfie. D’altronde, se non puoi cambiare le cose, almeno raccontale meglio. fammi una vignetta caricaturale della meloni che dice ” Credetemi la mia è una vera Favola !”
L’Italia e la Politica del “Facciamo Finta che Va Tutto Bene”
L’Italia e la Politica del “Facciamo Finta che Va Tutto Bene” Se c’è una cosa che gli italiani hanno imparato negli ultimi anni, è che la realtà si può piegare. Non i salari, quelli restano rigidi come il marmo di Carrara, ma la narrazione sì: quella si plasma, si modella, si trucca meglio di una star su Instagram. Prendiamo l’inflazione: nel 2021 con 1.000 euro si aveva un potere d’acquisto che oggi equivale a 920 euro. In quattro anni sono stati persi 80 euro al mese, quasi uno stipendio all’anno. Gli 80 euro mancanti? Spariti, come le promesse elettorali dopo il voto. Il Governo e la Magia delle Dichiarazioni Alla domanda “Cosa ha fatto il governo per i salari?”, la risposta è semplice: ha fatto la realtà italiana. Un capolavoro di tautologia, degno dei migliori filosofi da talk show. In pratica, si è pensato che bastasse dichiarare “va tutto bene” per farlo diventare vero. Peccato che l’inflazione non ascolti i comunicati stampa e i salari non si alzino con le rassicurazioni, ma solo con i fatti. Le riduzioni della tassazione ci sono state, ma non sono bastate a contrastare la stagnazione dei salari, che ha cause profonde e complesse. La politica del “farla facile” non paga, perché la verità emerge e spesso è dolorosa: l’84% degli italiani sente nelle proprie tasche il peso dell’inflazione. Tasse: Promesse, Sondaggi e la Sindrome di San Tommaso Salvini giura che abbassare le tasse è la sua priorità, così come della Lega e del governo. Gli italiani, però, sono gente concreta: secondo un sondaggio Ipsos, l’86% pensa di pagare le stesse tasse di prima, il 6% crede di pagarne meno e il restante 8% probabilmente ha smesso di leggere i bollettini fiscali per non rovinarsi la digestione. Il governo, intanto, si consola con la massima “meglio una promessa oggi che una riduzione domani”. Giorgetti, ministro dell’Economia, ha più volte sottolineato che gli equilibri di bilancio sono difficili e che bisognerà spendere per gli armamenti, il che rende complicata una vera riduzione delle tasse. Per aumentare i salari serve una seria politica industriale ed economica che aiuti le imprese a essere più produttive. Dazi, Bollette e la Gara a Chi Ce l’ha Più… Lungo Ignazio La Russa, con la consueta eleganza istituzionale, spiega la guerra dei dazi come una gara a chi ce l’ha più duro, più lungo, più forte. Nel frattempo, le bollette aumentano: nei primi tre mesi del 2025 si prevedono 190 euro in più per luce e gas e 45 euro in più per la spesa alimentare. Ma tranquilli: la soluzione è sempre dietro l’angolo, basta non girare troppo l’angolo, che poi si scopre che dietro c’è solo un altro aumento. L’energia in Italia costa più che in altri paesi, pesando sulla produzione e sui costi delle imprese. Le imprese, in molti casi, potrebbero aumentare i salari, ma il governo dovrebbe aiutarle e impegnarle su questa strada. Povertà: Lavorare per Restare Poveri I dati Istat sono chiari: oggi avere un lavoro a tempo pieno non basta più per non essere poveri. Un tempo si diceva “lavorare nobilita l’uomo”, oggi “lavorare impoverisce l’uomo”, ma almeno lo fa con dignità. L’aumento della povertà è un dramma per molte famiglie italiane. Il governo suggerisce una seria politica industriale, ma per ora si accontenta di una seria politica di annunci. Meloni, Trump e la Sindrome del Selfie Diplomatico Giorgia Meloni si sente in sintonia con Donald Trump. Un progetto politico per certi versi non dissimile, dicono. Il cartello 57 riassume la strategia: spendere negli Stati Uniti i fondi per la difesa, aumentare le importazioni di gas liquido e ridurre le tasse per le big tech americane. Eppure, pochi anni fa, Meloni parlava di web tax al 3% per i colossi del web, sottolineando come anche la sinistra difendesse gli interessi italiani solo quando si trattava di tasse. Peccato che la politica dei dazi abbia messo d’accordo tutti gli economisti: fa male a chi li impone e a chi li subisce. Ma vuoi mettere la soddisfazione di sentirsi “grandi” almeno nelle foto di gruppo? D’altronde, se non puoi cambiare la realtà, almeno cambia l’inquadratura. La politica trumpiana viene definita sbagliata sia sul piano economico che su quello generale, perché divisiva. Vertici, Meriti e la Magia del “Qualche Merito lo Avrò Avuto” Quando a Roma arrivano i potenti del mondo, l’organizzazione è perfetta, la città è bellissima e l’immagine della capitale fa il giro del mondo. Tuttavia, dal punto di vista diplomatico, Meloni “non ha toccato palla”: il Vaticano ha gestito la diplomazia, mentre Meloni rivendica comunque “qualche merito”, come dichiarato sul Corriere della Sera. In Italia, il merito è come la panna sulla torta: anche se non c’è, basta dirlo e tutti fanno finta di sentirne il sapore. Secondo Renzi, la produzione industriale è negativa da 25 mesi, 191.000 italiani sono emigrati all’estero con un aumento del 20% rispetto all’anno precedente, e le bollette continuano a salire. Renzi sottolinea che spesso si attribuiscono meriti diplomatici a Meloni che non le spettano, come nel caso dell’incontro tra Trump e von der Leyen, che si conoscevano già da tempo. Padellaro osserva che forse è meglio non mettersi troppo in mostra che rischiare una brutta figura, e che il peso dell’Italia sulla scena internazionale resta comunque limitato. Conclusione: L’Arte Italiana del Fare Finta In definitiva, l’Italia resta maestra nell’arte del “facciamo finta che va tutto bene”. I salari calano, le tasse restano, le bollette salgono, la povertà aumenta e la produzione industriale è in calo, ma la narrazione è sempre ottimista. E se la realtà bussa alla porta, basta non aprire. O, meglio ancora, dichiarare che non era nessuno.
Il 25 aprile fa ancora paura. Meglio vietarlo, sa di libertà
Il 25 aprile fa ancora paura. Meglio vietarlo, sa di libertà C’è una frase in quel manifesto del 25 aprile che racconta l’Italia di oggi meglio di mille editoriali: “Lo vieterei… ma sa troppo di libertà.” Già, il problema è proprio quello. Ottant’anni dopo la Liberazione, la libertà è ancora vista come un lusso, una concessione, una cosa da somministrare a dosi controllate — come si fa con un medicinale che può dare effetti collaterali. Mentre il paese si divide tra chi porta il fiore sulla tomba di un Papa e chi porta la bandiera della Resistenza nelle piazze, una parte del potere politico invita alla “sobrietà”. Non per rispetto, sia chiaro, ma per fastidio. Perché il 25 aprile ricorda che la libertà nasce dalla disobbedienza, non dalla disciplina. Che i partigiani non chiedevano permesso. Che l’antifascismo non era “conformità”, ma rischio, scelta, rottura. Così, oggi, c’è chi vorrebbe mettere i tappi alle orecchie quando si canta Bella Ciao e chi storce il naso di fronte a un pugno fatto di pane. Eppure è tutto lì: la libertà è semplice come il pane, necessaria come l’aria, ma fa paura a chi sogna un popolo muto, docile, rassegnato. La vignetta del vecchietto incatenato davanti al manifesto è una fotografia crudele. Parla di un’Italia che ha barattato la memoria con il comfort, la dignità con il disinteresse, la storia con la propaganda. Un’Italia che ha paura di guardare il suo passato perché rischierebbe di vedere il suo presente per quello che è: più vicino alla catena che al pane. Vietarlo, il 25 aprile? Magari. Così almeno si ammetterebbe che la libertà è ancora un problema irrisolto.
Rai … al Servizio Privato Del Governo, “Si Contenghino i Giornalisti !” Come Disse Un Famoso Politico.
Rai … Al Servizio Privato Del Governo, “Si Contenghino I Giornalisti !” Come Disse Un Famoso Politico. C’è un nuovo reality show in onda alla Rai. Non si chiama “L’Isola dei Famosi”, ma “L’Archivio dei Giornalisti”. Regole semplici: ogni filmato girato da un autore RAI — anche quelli che toccano i nervi scoperti del potere — va consegnato al produttore, pardon, all’editore, anzi no: al governo. Benvenuti nel Grande Fratello dell’informazione pubblica. Un reality senza nomination, perché tanto l’unico eliminato è il giornalismo. Sigfrido Ranucci, volto storico di Report, l’ha detto senza giri di parole: “È la fase più buia della Rai in 35 anni.” Ed è difficile dargli torto. Una circolare dell’amministratore delegato (nominato dal governo, per chi si fosse distratto) obbliga alla “tracciabilità dei filmati”, vale a dire: “tu girali pure, poi ce li guardiamo noi”. Non si tratta di gestione d’archivio. È sorveglianza redazionale. Altro che vigilanza pluralista. Siamo alla pre-produzione ideologica. L’informazione sotto tutela (del potere) Siamo al paradosso: la Rai — servizio pubblico — vuole l’accesso illimitato a tutto ciò che viene girato, comprese le fonti, le inchieste, i materiali grezzi. Non lo chiede un giudice. Lo chiede l’azienda. E l’azienda, come ormai è chiaro, risponde politicamente. Vogliamo essere chiari? Questa è una minaccia diretta al principio costituzionale della libertà di stampa. Una pistola formale puntata alla tempia dell’autonomia giornalistica. Il problema non è solo legale. È culturale, etico, editoriale. È un cambio di paradigma: dal giornalismo come strumento di controllo del potere, al giornalismo controllato dal potere stesso. Ossessione? No, dovere. C’è chi accusa Report di essere “ossessivo” verso il governo, e in particolare verso Giorgia Meloni. Bene. Domanda: quale altra funzione ha il giornalismo d’inchiesta, se non disturbare il potere? Un giornalismo che non disturba non è imparziale, è inutile. E chi parla di “ossessione” confonde l’inchiesta con l’insinuazione, il rigore con il livore, la vigilanza con la vendetta. Che poi, detta tra noi: se le inchieste fanno male, il problema non è chi le fa. È chi le subisce. Giornalismo sotto processo (anzi, no) Ranucci lo dice chiaramente: “Le accuse di manipolazione? Archiviate. Sempre.” Perché i giornalisti, a differenza di certi politici, vanno davanti ai giudici. E vincono. E allora, cosa resta? La narrazione tossica. La delegittimazione sistematica. La solita macchietta del “giornalista ideologico” contrapposto al potere “sobrio e trasparente”. Peccato che sia una bufala. E che questa bufala stia diventando strategia di comunicazione istituzionale. La Rai come proprietà privata (dello Stato) La verità è che la RAI oggi non è più un servizio pubblico, ma un asset di governo. Un’azienda editoriale a partecipazione politica diretta. Con un amministratore delegato scelto dall’esecutivo, e con telegiornali sempre più indistinguibili dai comunicati stampa ministeriali. A chi giova questa trasformazione? A chi vorrebbe un Paese dove il pluralismo si pratica solo in campagna elettorale, e il resto del tempo si obbedisce. A chi vuole che i giornalisti smettano di cercare la verità e inizino a raccontare una versione autorizzata dei fatti. ❗ Una domanda per tutti Chi sarà il prossimo? Chi sarà il prossimo autore, regista, cronista o freelance che dovrà consegnare i propri appunti, i propri contatti, i propri materiali, solo perché ha avuto l’ardire di raccontare qualcosa che disturbava? E soprattutto: chi avrà ancora il coraggio di parlare, se sa che il girato finirà in mano a chi dovrebbe essere oggetto dell’inchiesta? Questo non è solo un attacco al giornalismo. È un attacco all’idea stessa di democrazia.
Il Silenzio che Urla: quando la seconda carica dello Stato parla come un commentatore da bar
Il Silenzio che Urla: quando la seconda carica dello Stato parla come un commentatore da bar C’è un silenzio che pesa più di mille dichiarazioni, ed è quello sull’eredità del fascismo. Un silenzio che si ostina a non diventare condanna. Anzi, che a volte si maschera da orgoglio genealogico, da ambiguità storica, da nostalgia involontaria ma ben coltivata. E poi c’è un linguaggio che non dovrebbe esistere. Non nelle istituzioni. Non dalla voce della seconda carica dello Stato. Non da chi, nel 2024, dovrebbe rappresentare tutti i cittadini — anche quelli che scrivono romanzi, che fanno domande, che dissentono. Il caso Scurati-La Russa non è una polemica culturale. Non è uno scontro tra narcisismi o sensibilità politiche diverse. È una questione di democrazia. Perché nel momento in cui il Presidente del Senato — figura istituzionale, garante, non polemista da talk show — denigra un cittadino che esercita il proprio diritto di parola, non sta solo attaccando quella persona. Sta delegittimando il ruolo che ricopre. Quando La Russa risponde ad Antonio Scurati dicendo che “ha fatto fortuna con i libri sul fascismo”, non sta confutando una tesi. Sta scivolando nel sarcasmo da social, nello sberleffo da curva, in quella deriva populista che ha trasformato l’arena politica in uno stadio e le istituzioni in una bacheca Facebook. Eppure, non si tratta solo di stile. Ma di contenuto. Perché in tutto questo, c’è una domanda che resta sospesa: Il Presidente del Senato ha mai rinegato il fascismo? Non è una provocazione. È una domanda legittima, civile, storica. E non rispondere — o peggio, rispondere insultando — è un problema. Perché non si può stare nelle istituzioni e nei dopolavoro fascisti contemporaneamente. Non si può dirigere il Senato della Repubblica Italiana e, allo stesso tempo, sorvolare sul fatto che il regime fascista abolì il Senato stesso, insieme a tutte le libertà civili e politiche. Scurati ricorda che alla Scala, nel 1946, Arturo Toscanini inaugurò il teatro con un concerto simbolo della rinascita democratica, dopo vent’anni di buio. E ha ragione: la Scala non è solo un luogo musicale, ma una cattedrale della libertà riconquistata. Che un uomo che non ha mai rifiutato apertamente il fascismo sieda lì in prima fila è un cortocircuito storico e morale. Non è un attacco personale. È una constatazione. Un grido che parte dalla cultura per raggiungere la coscienza. In questa vicenda, La Russa non è solo colpevole di avere polemizzato con un cittadino. È colpevole di aver utilizzato la sua posizione istituzionale per scagliarsi contro la libertà di espressione. E questo, in una democrazia sana, è un abuso. Perché lo Stato non discute con il cittadino. Lo Stato garantisce al cittadino il diritto di esprimersi. Provate a immaginare il Presidente Mattarella che twitta: “Lilli Gruber è una pessima giornalista.” “Scurati? Scrive solo per vincere premi.” Inimmaginabile, vero? Ma nel tempo dei populismi, l’inimmaginabile diventa pratica quotidiana. Il ruolo istituzionale si fonde con il profilo privato. L’autorevolezza viene sostituita dall’aggressività. E chi dissente diventa “nemico”, non interlocutore. È questa la vera emergenza democratica: una classe dirigente che non distingue più tra funzione e opinione. Tra potere e sfogo. E che, anziché disinnescare il linguaggio dell’odio, lo alimenta. Anziché proteggere la cultura, la colpisce. Anziché garantire pluralismo, si sente minacciata da chi la pensa diversamente. Antonio Scurati, con fermezza e lucidità, ha ricordato a tutti che la cultura non ha paura del potere, ma il potere ha sempre avuto paura della cultura. E quando il potere insulta, denigra e svia, non fa altro che confermare di essere fragile, impaurito, e in fondo, abusivo. Ecco perché, finché una figura istituzionale non rinega apertamente e definitivamente il fascismo, la sua presenza nei luoghi simbolo della democrazia e della cultura non sarà mai pienamente legittima. Lo dice Scurati. Lo dice la storia. E lo dirà anche la coscienza collettiva, se ancora siamo capaci di ascoltarla.
LA LIBERTA’ E’ IN OFFERTA SOLO PER CHI SE LA PUO’ PERMETTERE … QUESTA E’ L’ITALIA CHE VUOI ?
La Libertà è in Offerta: Solo per Chi Se la Può Permettere di Luciano, cittadino non ancora scaduto C’era una volta la libertà. Bella, luminosa, con un po’ di polvere sulle spalle perché, si sa, era stata usata molto durante le rivoluzioni, i movimenti civili, le lotte per i diritti. Poi qualcuno — con un megafono, un account X e un cappellino rosso — ha deciso che la libertà era troppo democratica, troppo distribuita. E ha pensato bene di metterla in vendita. Oggi la libertà è come l’olio extravergine al supermercato: in offerta, ma solo per chi ha la tessera. Chi non ce l’ha? Gli immigrati, i poveri, i precari, quelli che non parlano abbastanza forte da sovrastare le urla di chi si crede libero solo perché può urlare. Libertà di togliere libertà È il nuovo modello occidentale: libertà di escludere, libertà di odiare, libertà di rimandare indietro. E quando dici: “Scusa ma questo non è un po’ fascista?” Ti rispondono: “È la mia opinione”. Come se l’opinione fosse un pass per sospendere la Costituzione. La libertà, ci dicono, è difendere la patria dalla minaccia esterna: che sia un barcone, una famiglia rom, o una tempesta di neve fabbricata dai democratici in un laboratorio segreto dell’Iowa (sì, è successo davvero). I dazi sulla realtà Nel frattempo Trump, l’uomo che ha avuto un incontro ravvicinato con la candeggina, è tornato. Ha alzato i dazi, non sui prodotti, ma sulla realtà. Ora ogni verità costa il doppio. Se vuoi sapere quant’era piena davvero la piazza del suo comizio, paghi. Se vuoi sapere se la youtuber che ha parlato con lui è una fonte attendibile o una fan della neve radioattiva, paghi. In Italia, intanto, Bruno Vespa tranquillizza i mercati con la grazia di una tisana al bromuro: “La pizza aumenterà di un dollaro.” E i mercati, per tutta risposta, crollano come uno sgabello sotto un elettore indeciso. I social: nuova sede del Ministero della Verità Alternativa Sui social, nel frattempo, si combatte una guerra senza fronti né regole: verità contro narrazioni, dati contro “sensazioni”, scienza contro “me l’ha detto mio cugino su Telegram”. La democrazia è diventata una diretta Instagram, la realtà un filtro bellezza. E tu, se osi dire: “Aspetta, ma questa cosa è falsa…”, vieni bannato. Per violazione degli standard della nuova libertà: non contraddire chi grida più forte. La paura come valuta Oggi il PIL si calcola in ansia. Un migrante vale due punti percentuali in meno alle elezioni, ma sei in più nei sondaggi. Un blackout diventa il segnale dell’invasione. Una donna che chiede diritti è “una radical chic globalista”. Un ragazzo che protesta è “un pericolo per l’ordine pubblico”. Il futuro? È una parola che si usa solo al passato. Conclusione: il grande inganno La libertà è diventata un prodotto di marketing. “Difendila!” dicono… mentre la smontano pezzo per pezzo. E tu, che ancora credi nella libertà vera, ti senti spaesato. Ti guardi attorno e ti chiedi: “Ma sono io l’ingenuo? O sono loro che mentono così bene da sembrare veri?” E allora, ecco la verità imprescindibile, quella nuda e senza hashtag: La libertà o è per tutti, o non è per nessuno. Se serve a costruire muri, non è libertà. Se serve a zittire chi pensa diverso, non è libertà. Se ha paura della realtà, non è libertà. È solo un modo elegante di dire prepotenza. E se domani vi venderanno la libertà con lo sconto, diffidate: potrebbe essere scaduta.
La libertà capovolta: il volto oscuro del nuovo populismo globale
La libertà capovolta: il volto oscuro del nuovo populismo globale Viviamo in un tempo in cui la parola “libertà” è stata svuotata di senso e riempita di significati nuovi, grotteschi, rovesciati. È una libertà che non libera, ma esclude. Una libertà che si afferma soltanto nel togliere agli altri: il diritto di migrare, di esprimersi, di vivere. È la libertà secondo la nuova destra populista, che si affaccia sul mondo come una caricatura tragica delle ideologie del Novecento. In Europa si moltiplicano gli attacchi. Cresce la tensione sociale, e cresce la paura. Una paura che non viene più soltanto dagli eventi — attentati, crisi economiche, guerre — ma da una narrazione martellante che li amplifica, li distorce, li brandisce come armi ideologiche. E mentre la violenza cresce, i media minimizzano. I politici accusano. I leader sovranisti, invece, capitalizzano. Il terrore, oggi, è diventato linguaggio. È diventato metodo. Negli Stati Uniti, l’ex presidente Donald Trump ha inaugurato una stagione politica fondata sulla manipolazione sistematica della realtà. Ha parlato di “verità alternative”. Ha detto che i suoi comizi erano affollati anche quando non lo erano. Ha suggerito di iniettarsi candeggina contro il Covid. Ha accolto alla Casa Bianca una youtuber che teorizzava complotti meteorologici orditi dai democratici, e sulla base delle sue parole ha licenziato sei alti funzionari della sicurezza nazionale. Non è satira. È accaduto. La minaccia, dunque, non è solo nei fatti, ma nel modo in cui quei fatti vengono raccontati, interpretati, manipolati. Nella costruzione di una realtà parallela in cui i nemici sono ovunque e la verità è un ostacolo. In questo scenario, la parola “libertà” viene piegata su se stessa. Non significa più ciò che ha significato per secoli — emancipazione, diritti, limiti al potere — ma qualcosa di nuovo, di inquietante: libertà di censurare, libertà di discriminare, libertà di costruire muri. La differenza rispetto alle destre liberali del passato è radicale: mentre queste ultime si battevano per la libertà “da” qualcosa (dall’oppressione, dallo Stato invasivo, dalla burocrazia), le nuove destre lottano per la libertà “di” esercitare un potere assoluto su chi è diverso, debole o straniero. Trump vuole chiudere l’America in un recinto economico, culturale e ideologico. Una sorta di autarchia moderna, che ricorda più i progetti irrealizzabili del comunismo sovietico che il libero mercato americano. Eppure trova consensi. Fino a quando, forse, non tocca il portafoglio. Perché finché si parla di migranti, di muri, di “altro”, il popolo applaude. Ma quando si colpisce il commercio, i prezzi, la vita quotidiana — anche solo per “un dollaro di più sulla pizza” — allora il consenso vacilla. La realtà bussa, e nessuna verità alternativa può tenerla fuori. Intanto in Europa il linguaggio di Trump ha trovato eco. Da Salvini a Meloni, da Le Pen a Orbán, si ripete il copione: i migranti fanno paura, ma sono loro a fuggire dalla paura. La libertà è sacra, ma va difesa togliendola agli altri. I media mentono, tranne quelli che confermano la nostra versione. In questo gioco pericoloso, tutto viene ridotto a piccolezza. Il crollo delle istituzioni democratiche diventa un meme. La crisi climatica, un’invenzione ideologica. Il diritto, un ostacolo burocratico. E il cittadino, un consumatore emotivo. La democrazia non muore in un giorno. Muore quando ci abituiamo a vederla sfigurata. Quando ridiamo delle sue parodie senza più indignarci. Quando smettiamo di chiederci dove finisce la retorica e dove comincia il rischio. Forse oggi siamo già dentro quel momento. E la domanda non è più: “Chi ci salverà?”. Ma: “Chi ci dirà che c’è ancora qualcosa da salvare?”
Trump Imparerà Ad Amare il Digital Yuan
“La Guerra delle Valute: come imparai a non preoccuparmi e ad amare il Digital Yuan” di Luciano Di Gregorio, cronista di un mondo che cambia C’era una volta l’America. Letteralmente. Aveva un sogno, una bandiera, e soprattutto una valuta che poteva comprarti tutto: benzina, democrazia, e un SUV con la bandiera sopra. Poi un giorno si svegliò e scoprì che i ponti digitali cinesi erano più veloci dei suoi tweet. Donald Trump, sempre sobrio come un brindisi a Capodanno, ha deciso che era il momento di piantarla con la diplomazia e passare all’arte dell’affronto fiscale. Tariffe del 104% su tutto ciò che arriva dalla Cina: dalla maglietta del dragone al cavo USB che serve a ricaricare l’iPhone con cui postare #MAGA. Ma, sorpresa: Pechino non ha reagito con missili o minacce. Ha semplicemente… codificato. Il Digital Yuan, ovvero il fratello nerd del vecchio renminbi, ora si fa largo nei corridoi del commercio internazionale con l’eleganza di una ballerina su TikTok. Non passa più da New York, non chiede permesso a Londra. Si muove. In sette secondi. E mentre lo Swift ansima come una balena spiaggiata, il One digitale nuota tra ASEAN, Medio Oriente e sei paesi europei che un tempo si vergognavano a dirlo, ma ora ammettono che il dollaro non è poi così cool. Il messaggio è chiaro: se Washington costruisce muri, Pechino stampa QR Code. Altro che Via della Seta: questa è la Via della Silicon Valley cinese, dove ogni click è un colpo al cuore del sistema Bretton Woods. Altro che Vietnam, ora il campo di battaglia è il back-end di un wallet digitale. E mentre il digital yuan si infiltra nei gangli dei mercati globali, l’America si ritrova con una crisi da identity theft: “Chi siamo noi senza il dollaro sovrano?”, si chiede un funzionario della Fed mentre tenta di capire come funziona WeChat Pay. Spoiler: è già tardi. Nel frattempo, nei supermercati USA, un iPhone da $1200 diventa un oggetto di lusso, come il tartufo o l’educazione universitaria. Le aziende americane – abituate a montare prodotti con pezzi cinesi, cacciaviti messicani e slide motivazionali – scoprono che l’autarchia industriale è bella solo nei discorsi elettorali. Ma attenzione: non è che la Cina sia diventata improvvisamente il nuovo Gandhi monetario. È solo più strategica. Sa che oggi le guerre si combattono con reti, pagamenti, standard. Non più con eserciti, ma con algoritmi. E ogni transazione in yuan è un voto contro l’impero della carta verde. La verità è che la multipolarità valutaria non è un film di fantascienza. È un cartellone pubblicitario che recita: “Coming soon to a country near you”. I BRICS lo avevano promesso, e adesso Pechino lo sta installando come fosse l’aggiornamento di sistema di un nuovo mondo. E così, mentre noi discutiamo ancora se il contante vada abolito o se i Bitcoin siano il nuovo oro, il digital yuan è già nei circuiti. Già nelle banche. Già negli accordi. Silenzioso. Inevitabile. Elegantemente autoritario come solo una criptovaluta di Stato può essere. Insomma, siamo entrati nell’era della geopolitica delle app. E forse un giorno i nostri nipoti leggeranno nei libri di scuola (digitali, ovviamente): “Una volta c’era il dollaro. Poi arrivò il One. E nessuno pagò più per aspettare tre giorni un bonifico.” Nel frattempo, il mondo si divide tra chi teme la dedollarizzazione, chi la nega… e chi ha già scaricato l’app del One digitale.