C’è una frase in quel manifesto del 25 aprile che racconta l’Italia di oggi meglio di mille editoriali:
“Lo vieterei… ma sa troppo di libertà.”
Già, il problema è proprio quello.
Ottant’anni dopo la Liberazione, la libertà è ancora vista come un lusso, una concessione, una cosa da somministrare a dosi controllate — come si fa con un medicinale che può dare effetti collaterali.
Mentre il paese si divide tra chi porta il fiore sulla tomba di un Papa e chi porta la bandiera della Resistenza nelle piazze, una parte del potere politico invita alla “sobrietà”. Non per rispetto, sia chiaro, ma per fastidio.
Perché il 25 aprile ricorda che la libertà nasce dalla disobbedienza, non dalla disciplina.
Che i partigiani non chiedevano permesso.
Che l’antifascismo non era “conformità”, ma rischio, scelta, rottura.
Così, oggi, c’è chi vorrebbe mettere i tappi alle orecchie quando si canta Bella Ciao e chi storce il naso di fronte a un pugno fatto di pane.
Eppure è tutto lì: la libertà è semplice come il pane, necessaria come l’aria, ma fa paura a chi sogna un popolo muto, docile, rassegnato.
La vignetta del vecchietto incatenato davanti al manifesto è una fotografia crudele.
Parla di un’Italia che ha barattato la memoria con il comfort, la dignità con il disinteresse, la storia con la propaganda.
Un’Italia che ha paura di guardare il suo passato perché rischierebbe di vedere il suo presente per quello che è: più vicino alla catena che al pane.
Vietarlo, il 25 aprile?
Magari.
Così almeno si ammetterebbe che la libertà è ancora un problema irrisolto.