Dazi, dogane e dignità perdute: anatomia di un mondo che si fa la guerra con le bollette doganali

 


Un tempo la globalizzazione era un sogno: merci che viaggiavano, culture che si contaminavano, e cellulari assemblati in sei paesi diversi prima di finire a terra nel bagno di casa.

Poi qualcuno ha deciso che condividere è comunismo, e che ogni Stato deve tornare a produrre da solo i propri bulloni, possibilmente a mano e con orgoglio patriottico.

Così sono tornati loro: i dazi, quei simpatici balzelli da Ottocento, oggi rilanciati in versione deluxe da leader politici con il pollice sul Twitter e l’indice sul bazooka commerciale.


Il dazio come terapia d’urto per economie stressate (dagli stessi che le guidano)

I dazi sono diventati come la tachipirina dei governi: non importa quale sia il problema – disoccupazione, bilancia commerciale, mal di pancia elettorale – si risponde sempre con un “mettiamoci sopra un dazio e vediamo se passa”.

Peccato che non passi. Anzi, spesso peggiora.

Appena alzi un dazio, qualcuno lo vede, rilancia, e inizia il valzer delle vendette fiscali.

Risultato? Una “guerra commerciale” dove tutti combattono per proteggere i propri lavoratori, finendo per licenziarli comunque.


Globalizzazione: la grande amica tradita (ma solo quando fa comodo)

Abbiamo voluto delocalizzare tutto: le fabbriche, le competenze, perfino le responsabilità politiche.

Abbiamo chiuso un occhio sullo sfruttamento in nome del risparmio, abbiamo applaudito al libero scambio mentre compravamo vestiti a cinque euro cuciti da mani troppo piccole per votare.

E adesso?

Ora che la Cina è diventata un colosso e il Bangladesh ci manda newsletter economiche, si grida allo scandalo: “ci rubano il lavoro!”

Come se fossimo stati derubati, e non complici.


Il reshoring e il mito del “fare tutto in casa” (con materiali cinesi)

Il ritorno della produzione in patria, chiamato “reshoring” da chi vuole farlo sembrare una strategia e non una pezza, è la nuova grande idea.

Peccato che, per fare “tutto da soli”, servano ancora le materie prime degli altri, la tecnologia dei vicini e la manodopera che si lamenta poco.

Così si produce in Italia con componenti vietnamiti, si esporta in America con packaging giapponese e si dichiara “orgoglio nazionale” perché la scatola è blu.

Nel frattempo, i Paesi in via di sviluppo, che si erano finalmente aggrappati alla scialuppa della manifattura globale, vengono lasciati al largo: “Ci dispiace, abbiamo deciso di salvarci da soli. Buona fortuna con il microcredito.”


L’Europa come capro espiatorio di professione

Nell’arena della colpa internazionale, l’Europa è la zia che sbaglia sempre regalo. Troppo ecologista, troppo equa, troppo… europea.

Viene accusata di aver imposto regole ambientali, difeso i diritti umani, e altre sciocchezze simili.

Insomma: non è abbastanza cinica per sopravvivere nel mercato globale dominato da chi grida “America First” o “Cina Uber Alles”.

E così, mentre Bruxelles cerca compromessi e salvaguardie, Washington e Pechino si scambiano testate… commerciali.


La globalizzazione è morta. Evviva la globalizzazione (con altri fornitori)

Oggi tutti dicono che la globalizzazione è finita. Ma non è vero.

È semplicemente cambiato l’algoritmo: si globalizza dove conviene, si chiude dove serve un titolo di giornale, si colpisce a rotazione come in un risiko stanco.

Il problema non è “il mondo aperto”. Il problema è la classe dirigente che gioca al risiko col mondo chiuso in uno zaino a stelle e strisce.


Conclusione: un mondo in guerra con se stesso, ma in giacca e cravatta

Il vero rischio di questa nuova stagione protezionista non è solo la recessione.

È la normalizzazione del cinismo economico, dove ogni mossa è giustificata da “interesse nazionale” e ogni errore da “colpa degli altri”.

Il rischio è che, cercando di salvare il proprio giardino, bruciamo la foresta.

Ma tranquilli: se tutto va a rotoli, basterà un altro dazio. O una conferenza stampa. O un tweet.

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